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La misura primaria per i kilobyte circumsolari era salita a una cifra astronomica, la cui migliore stima era dell’ordine di 9,45 x 1018. Le informazioni del mondo, valutando soltanto quelle nelle banche dati completamente accessibili e senza contare l’immenso dominio dei dati riservati, assommavano a 2,3 x 1027 bit, l’equivalente di 150 libri di formato normale per ogni stella d’ogni singola galassia dell’universo visibile.

Era stato necessario adottare severe misure sociali per impedire che intere popolazioni si disintegrassero nell’orgia dell’abbondanza.

Megawatt di energia sufficienti a far andare avanti interi stati del Consiglio venivano giocondamente sprecati dai vascelli transorbitali ad alta velocità. Queste navi spaziali, grandi abbastanza da offrire tutte le comodità a centinaia di passeggeri, avevano assunto la dignità di nazioni-stato partendo dai rispettivi boom demografici.

Nessuno di questi progressi sociali era comunque paragonabile all’impatto sociale dei progressi delle scienze. I successi nel campo della fisica statistica avevano dimostrato l’oggettiva esistenza di quattro livelli prigoginici di complessità, postulando l’esistenza anche di un quinto livello. L’età del cosmo era stata calcolata con un’accuratezza di più o meno quattro anni, e tentativi alquanto esoterici erano in corso per valutare il “quasi tempo” consumato dallo spazio primigenio del precontinuum.

I viaggi interstellari più-lenti-della-luce erano diventati fisicamente possibili, e quattro spedizioni erano state lanciate, guidate da teste-di-cavo-analizza-stelle, e dotate d’un basso rapporto di massa per il propellente. L’interferometria su linee di base ultralunghe, realizzata grazie ai radiotelescopi a bordo delle navi interstellari delle teste-di-cavo, aveva consentito di stabilire delle attendibili parallassi per la maggior parte delle stelle del braccio di Orione della Galassia. L’esame dei bracci di Perseo e del Centauro mostrava delle zone inquietanti in cui lo schema delle stelle sembrava possedere una sinistra regolarità.

Nuovi studi delle galassie del superammasso locale avevano portato a migliorare di qualche altro decimale la costante di Hubble. Discrepanze minori avevano portato alcuni visionari a concludere che l’espansione dell’universo aveva subito cospicue manomissioni.

Il sapere era più che mai potere. E nell’impadronirsi del sapere l’umanità aveva ghermito un potere vivace e rabbioso come un filo elettrico scoperto. In gioco c’erano questioni più vaste di qualunque altra l’umanità avesse conosciuto in precedenza: le prospettive erano più abbaglianti, le potenzialità più chiare, e le implicazioni più sbalorditive di qualunque cosa che l’umanità o i suoi successori si fossero trovati a fronteggiare.

Comunque, la mente umana aveva ancora le proprie risorse. Il dono della sopravvivenza non era stato trovato soltanto nell’acuta percezione dei Plasmatori, con il loro arsenale di sostanze biochimiche, o nei progressi cibernetici dei Mechanist e l’implacabile logica delle loro intelligenze artificiali. Il mondo era stato conservato intatto per merito della fantastica predilezione della mente umana per la noia.

L’umanità era sempre stata circondata dal meraviglioso. Non ne era mai risultato, comunque, niente di davvero straordinario. Sotto l’ombra delle rivelazioni cosmiche, la vita si crogiolava ancora in una comoda routine. Le fazioni dissidenti erano molto più bizzarre di quanto lo fossero mai state prima, ma la gente si era abituata a questo, e l’orrore che ciò provocava era molto diminuito. Clade quali le Intelligenze Spettrali, le Aragoste, e i Bagnanti del Sangue, erano state incorporate nel repertorio delle possibilità e perfino trasformate in barzellette.

Eppure la tensione era presente dovunque. Le nuove umanità multiple si lanciavano alla cieca verso le loro sconosciute destinazioni, e la vertigine dell’accelerazione aveva colpito in profondità. Gli antichi preconcetti erano ridotti a brandelli, le antiche fedeltà erano ormai fuori uso. Intere società erano rimaste paralizzate da immensi panorami di possibilità assolute in grado di fulminare i cervelli.

La tensione aveva assunto forme diverse. Per i cataclisti, quei superintelligenti che erano stati i primi ad avvertirlo, incuranti delle conseguenze, era un frenetico abbraccio dell’Infinito. Perfino l’autodistruzione alleviava il dolore taciuto. Gli Zen serotonisti avevano abbandonato la potenzialità in cambio della pallida beatitudine della calma e della quiete. Per altri, la tensione non era mai stata esplicita: soltanto un pizzicore d’inquietudine ai confini del sonno, o di lacrime improvvise e convulse quando le inibizioni della mente si sgretolavano per il bere e le droghe.

Per Abelard Lindsay, l’usuale manifestazione comportava sedersi, assicurati da cinghie, a un tavolo del Bistrò Marineris, un bar di Czarina-Kluster. Il Bistrò Marineris era una sfera gonfiabile in caduta libera nel nodo che congiungeva quattro tubovie, una stazione di transito per il vasto e ramificato nesso di habitat che formava il campus dei metasistemi kosmositici di Czarina-Kluster.

Lindsay stava aspettando Wellspring. Era appoggiato al tavolo dal profilo arrotondato, premendo le “toppe” di adesite applicate ai gomiti della sua giacca accademica sulla superficie di velcro.

Lindsay aveva centosei anni. Il suo più recente ringiovanimento non aveva cancellato tutti i segni esteriori dell’età. Le zampe di gallina formavano una fitta ragnatela intorno ai suoi occhi grigi e le rughe si diramavano dal naso fino agli angoli della bocca. Dei muscoli facciali supersviluppati increspavano le sue scure e mobili sopracciglia. Aveva una corta barba e degli spilloni dalla capocchia ingioiellata trattenevano i suoi lunghi capelli striati di bianco. Una delle mani era molto grinzosa, la sua pallida pelle era come pergamena incerata. La mano metallica era trivellata da griglie sensorie.

Lindsay osservò le pareti. Il proprietario del Marineris aveva opacizzato la superficie interna del bistrò, trasformandolo in un planetario. Tutt’intorno a Lindsay, e ad un’altra dozzina di clienti, si stendeva il paesaggio desolato e torturato di Marte, ritrasmesso dal vivo dalla superficie marziana, a colori dolorosamente intensi su un’angolazione di 360°.

Per mesi il robusto robot ricognitore aveva continuato ad avanzare lungo l’orlo della Valle Marineris, trasmettendo le sue immagini. Lindsay sedeva con la schiena rivolta al poderoso abisso: le sue titaniche dimensioni e l’atmosfera desolata e senza vita destavano in lui dolorose associazioni. I detriti e le colline erose venivano proiettati sulla parete curva davanti a lui, giganteschi blocchi strapiombanti e precipizi corrosi dal vento gli diedero l’impressione d’un sottinteso rimprovero. Era cosa nuova, per lui, provare un senso di responsabilità per un pianeta. Dopo tre mesi a Czarina-Kluster, stava ancora cercando d’immaginare dimensioni come quelle.

Tre accademici di Kosmosity si tolsero le cinture di sicurezza e scalciando si allontanarono da un tavolo vicino. Mentre se ne andavano, uno di loro si accorse di Lindsay, trasalì e venne verso di lui. — Mi scusi, signore. Credo di conoscerla. Il professor Bela Milosz, giusto?

Lo sconosciuto aveva quell’aria arrogante comune a molti plasmatori disertori, una vaga sensazione di fanatismo, per giunta mal indirizzato, che poteva risultare indisponente. — Sì, sono stato conosciuto con quel nome.

— Sono Yevgeny Navarre.

Quel nome risvegliò una lontana eco. — Lo specialista della chimica delle membrane? Questo è un piacere inaspettato. — Lindsay aveva conosciuto Navarre a Dembowska, ma soltanto attraverso la corrispondenza video. Visto di persona, Navarre appariva arido e incolore. Quale fastidioso corollario, Lindsay si rese conto che lui stesso era stato arido e incolore, durante quegli anni. — Prego, sieda con me, professor Navarre.

Navarre si affibbiò la cinghia. — È gentile da parte sua ricordare il mio articolo per il suo Giornale - disse. — “L’Agente Superficiale Attivo Vescicale nella Catalisi Colloidale degli Exoadcosauri”, uno dei primi che ho scritto.