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Il livello immediatamente inferiore all’ostello ospitava un’area dedicata alla manutenzione. Lindsay percepì lo scorrere costante del sangue nelle arterie e un occasionale gorgoglio simile a quello delle budella provenire dalle nude pareti. C’era un tremolio di bioschermi incassati nei bordi corrugati della carne.

— Questo è il centro sanitario. Per la salute della Muromadre, intendo. — gli spiegò Murasaki. — Qui lei ha un collegamento mentale. Qui può parlarle per mio tramite. Non deve allarmarsi. — Gli voltò la schiena e sollevò una frangia di capelli scuri dalla propria nuca, mostrandogli l’intercollegamento innestato alla base del cranio.

Lentamente, il Delirio Verde aveva invaso Lindsay, una pizzicante ondata di curiosità. Delirio Verde era la suprema droga antinoia, le basi biochimiche della sensazione di meraviglia ridotte alla loro essenzialità. Con una quantità sufficiente di Delirio Verde un uomo poteva trovare enormemente interessanti le linee dei palmi delle proprie mani. Lindsay sorrise con non simulata delizia. — Meraviglioso — disse.

Murasaki esitò, e lo guardò perplessa.

— Non deve allarmarsi se la fisso — la rassicurò Lindsay. — Lei mi ricorda tanto sua madre.

— Lei è davvero… lui, Cancelliere? Abelard Lindsay, l’amante di mia madre?

— Kitsune ed io siamo sempre stati amici.

— Le assomiglio molto?

— I cloni appartengono a se stessi. — Parlò con voce calma, tranquillizzante. — Un tempo, nel Consiglio dell’Anello, avevo una famiglia. I miei congenetici: i miei figli, erano cloni. E io li amavo.

— Non deve pensare che io sia soltanto un pezzo del Muro — replicò Murasaki. — Le cellule del Muro sono cromosomicamente depauperate. Blastomi chimerici. Il Muro non è completamente umano come la carne originaria di Kitsune. O la mia. — Lo fissò negli occhi, indagatrice. — Non le dispiace parlare prima con me, vero? Non la sto annoiando?

— Impossibile — dichiarò Lindsay.

— Noi Murofigli abbiamo avuto problemi, in altre occasioni. Alcuni stranieri ci trattano come mostri. — Sospirò, rilassandosi. — La verità è che siamo piuttosto noiosi.

Lindsay si mostrò comprensivo. — Lo pensa proprio?

— Non come su Czarina-Kluster. Là le cose sono eccitanti, no? Succede sempre qualcosa. Pirati. Postumanisti. Disertori. Investitori. A volte visiono dei nastri che vengono da lì. Mi piacerebbe avere dei vestiti come quelli.

Lindsay sorrise. — I vestiti sembrano più belli visti da lontano, mia cara. I cicada si vestono per fare sfoggio della propria posizione sociale. Possono volerci delle ore per farlo.

— Lei… soffre soltanto di pregiudizi, cancelliere Lindsay. È stato lei ad inventare lo spogliarello sociale!

Lindsay sussultò. Doveva essere sempre perseguitato da quel cliché?

— L’ho visto in una commedia — disse la ragazza. — La Goldreich Intrasolar è passata qui, durante una tournée. Hanno messo in scena Pietà per i Parassiti di Fernand Vetterling. Nel momento culminante, l’eroe si denuda.

Lindsay si sentì mortificato. I lavori di Vetterling avevano perso tutto il loro impatto da quando lui era diventato uno zen serotonista. Lindsay l’avrebbe anche detto alla ragazza, ma avvertiva troppo l’ombra di una propria colpa per il tragico corso assunto dalla carriera di Vetterling. A causa della politica, Vetterling aveva passato degli anni come non-persona. Lindsay non poteva biasimare il drammaturgo per aver scelto la pace a tutti i costi.

— Lo spogliarello è una forma del tutto decente al giorno d’oggi — replicò. — Ha perso tutto il suo significato. La gente lo fa soltanto per dare enfasi a una conversazione.

— Io pensavo fosse meraviglioso. Anche se la nudità non significa molto su Dembowska… Ma non dovrei proprio io starle qui a parlare di lavori teatrali. Non è stato lei a fondare la Kabuki Intrasolar?

— È stato Fyodor Ryumin — precisò Lindsay.

— Chi è?

— Un brillante commediografo. È morto alcuni anni fa.

— Era molto vecchio.

— Molto. Perfino più di me.

— Oh, mi spiace. — L’aveva imbarazzata. — Adesso me ne vado. Lei e la Muromadre dovete avere molto da discutere. — Premette la mano contro la parete dietro di sé, poi tornò a girarsi una volta ancora verso di lui. — Grazie per essersi mostrato tanto indulgente. È stato un grande privilegio. — Un tentacolo di carne uscì dalla parete alle sue spalle. Il grumo svasato all’estremità del tentacolo si chiuse dietro al suo collo. La ragazza scostò i capelli e sistemò la presa. Il suo volto divenne molle. Le sue ginocchia cedettero e si accasciò lentamente nella debole gravità. Kitsune arrivò in linea e la colse prima che toccasse il pavimento. Il corpo ebbe un breve tremito nella paralisi del feedback; poi Kitsune fece in modo che che si stiracchiasse, e si passò le mani lungo le braccia. Il volto si riassestò. Il corpo era tutta grazia, adesso, fremente d’una antica e feroce vitalità elettrica. Soltanto gli occhi erano morti.

— Ciao, Kitsune.

— Ti piace questo corpo, tesoro? — Tornò a stiracchiarsi. — Niente fa rivivere i ricordi come trovarsi in una giovane donna… Come ti fai chiamare, oggi?

— Abelard Lindsay, cancelliere dei Metasistemi-Kosmosity di Czarina-Kluster, Sezione Sistemi Giovani.

— E Arbitro della Congrega dei Vitalateralisti.

Lindsay sorrise. — Le cariche nei club sociali non hanno validità legale, Kitsune.

— È una carica abbastanza forte da condurre qui un disertore, direttamente dalla Skimmers Union… Lei dice che il suo nome è Vera Constantine. E quel nome significa abbastanza per te da farti venire fin qui.

Lindsay scrollò le spalle: — Tu mi vedi, Kitsune.

— La figlia del tuo vecchio nemico. E la congenetica di una donna morta da tempo il cui nome mi sfugge.

— Vera Kelland.

— Come te lo ricordi bene! Meglio di quanto ricordi il nostro rapporto.

— Ne abbiamo avuto più di uno, Kitsune. Ricordo la nostra giovinezza nello Zaibatsu, anche se non così bene come vorrei. E ricordo i miei trent’anni qui a Dembowska, quando ti ho tenuta lontana perché la tua forma mi ripugnava e sentivo la mancanza di mia moglie.

— Non avresti potuto resistermi in nessuna forma, se ti avessi incalzato. In quegli anni ti ho soltanto stuzzicato.

— Da allora sono cambiato. Oggi, altre sono le cose che m’incalzano.

— Ma adesso ho una forma migliore. Come quella vecchia. — Scrollò giù il kimono dal corpo della ragazza.

Lindsay si avvicinò e passò la mano raggrinzita sul lungo fianco arcuato. — È molto bello — commentò.

— È tuo — gli disse Kitsune. — Divertiti.

Lindsay sospirò. Passò le dita sopra il grumo svasato sulla nuca della giovane. — Nel mio duello con Constantine, mi ero fatto installare qualcosa del genere. I fili perdono molto nella trasduzione. Così, non puoi provare la stessa cosa, Kitsune. Non come la provavi allora.

— E con ciò? — Lei se ne uscì in una sonora risata. La bocca si aprì, ma il volto si mosse appena. — Quei limiti me li sono lasciati alle spalle tanto tempo fa che me li sono dimenticati.

— Fa lo stesso, Kitsune. Neppure io posso più percepire allo stesso modo. — Fece un passo indietro e si sedette sul pavimento. — Se ti può essere di consolazione, provo ancora qualcosa per te. Ma d’altro canto quello che c’era fra noi non ha mai avuto un nome.

Lei raccolse il kimono senza maniche. — La gente che perde tempo a dare dei nomi alle cose non ha mai il tempo per viverle.

Passarono alcuni istanti in amichevole silenzio. Lei tornò a infilarsi l’indumento e si sedette davanti a lui. — Come sta Michael Carnassus? — chiese lui alla fine.