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La gente al di là del Muro aveva i propri miti che variavano in maniera incontrollabile. Si diceva che vivessero in una giungla di pini e mimose sovrasviluppati. I continui incroci fra loro avevano dato risultati orrendi. Erano afflitti da doppi pollici e da sordità congenita.

Altri sostenevano che non c’era niente di anche remotamente umano al di là del Muro: soltanto un ammasso di software in proliferazione costante, che aveva acquisito una sinistra autonomia.

Era possibile, naturalmente, che il territorio al di là del Muro fosse stato segretamente invaso e conquistato da… alieni. Un intero folklore postindustriale era sorto intorno a questo affascinante concetto, sostenuto da ingegnose argomentazioni. Tutti si aspettavano gli alieni, presto o tardi. Era la moderna versione del Millennio.

Ryumin si mostrò paziente con lui; mentre Lindsay dormiva in preda alla febbre, lui pattugliava lo Zaibatsu con la sua telecamera robot, alla ricerca di notizie. Lindsay superò la sua malattia. Riuscì infine a trattenere nello stomaco un po’ di minestra e qualche mattoncino fritto di proteine condite.

Uno dei mucchi di apparecchiature di Ryumin cominciò a trillare con uno scandito e penetrante bip elettronico. Ryumin sollevò lo sguardo da dov’era seduto, intento a mettere in ordine delle cassette.

— È il radar — spiegò. — Vuoi porgermi quella cuffia, per favore?

Lindsay strisciò fino al mucchio di cavi del radar e dipanò un gruppo degli oculari adesivi di Ryumin, il quale se li applicò alle tempie. — Non c’è molta risoluzione sul radar — disse, chiudendo gli occhi. — È appena arrivata una folla. Pirati, molto probabilmente. Si stanno aggirando sulla piattaforma di atterraggio.

“C’è qualcosa di molto grande che si muove insieme a loro. Hanno portato qualcosa di gigantesco. Farò meglio a passare alla telefoto.” Tirò il cordone del casco, e la sua spina si staccò con uno schiocco.

— Esco fuori a dare un’occhiata — disse Lindsay. — Sto abbastanza bene.

— Prima collegati — disse Ryumin. — Prendi le cuffie e una delle telecamere.

Lindsay collegò il sistema ausiliario e uscì fuori dalla camera di equilibrio a cerniera nell’aria densa.

Si allontanò dalla cupola di Ryumin andando verso l’orlo del pannello di terra. Si girò e raggiunse trotterellando una vicina scaletta che conduceva sopra la bassa parete metallica, e puntò la telecamera verso l’alto.

— Così va benissimo — gli risuonò la voce di Ryumin nell’orecchio. — Disinserisci il circuito di luminosità, per favore. Quel piccolo pulsante sulla destra. Sì, adesso va meglio. Cosa pensi che sia, signor Dze?

Lindsay strizzò gli occhi attraverso le lenti. Molto più in alto, all’estremità settentrionale dell’asse dello Zaibatsu, una dozzina di cani solari si stavano dibattendo in caduta libera con un gigantesco sacco argentato.

— Sembrerebbe una tenda — riferì Lindsay. — La stanno gonfiando. — La borsa d’argento s’increspò, inturgidendosi d’un tratto, rivelandosi per un cilindro smussato. Sul suo lato c’era un grande marchio rosso alto quanto un uomo. Era un teschio rosso con due saette incrociate.

— Pirati! — esclamò Lindsay.

Ryumin fece udire una risatina. — Anch’io l’avevo pensato.

Una brusca raffica di vento investì Lindsay. Perse l’equilibrio in cima alla scaletta e d’un tratto guardò dietro di sé. La striscia di vetro della finestra formava un sentiero lungo e bianco di fatiscenza. Le greche esagonali di metalvetro erano chiazzate di tamponi scuri, rinforzati qua e là da puntelli di bloccaggio che parevano tanti bastoncini cinesi lasciati cadere a caso. Le falle erano state spruzzate con addensante plastico a garantire la tenuta stagna. La luce del sole filtrava cupa attraverso i tratti translucidi.

— Stai bene? — chiese Ryumin.

— Mi spiace — rispose Lindsay, e tornò a rivolgere la telecamera verso l’alto.

I pirati erano riusciti a far librare in aria il loro pallone di tessuto metallico e avevano acceso i due propulsori a spinta di cui era dotato. Mentre il pallone si allontanava dalla piattaforma di atterraggio, diede un singolo sussulto, poi schizzò in avanti. Trainava qualcosa: un grumo scuro dalla forma strana, più grande di un uomo.

— È un meteorite — l’informò Ryumin. — Un dono per la gente oltre il Muro. Hai visto le rocce scure che si ergono nella Zona Sterilizzata? Sono tutti doni dei pirati. È diventata una tradizione.

— Non sarebbe più facile trasportarlo via terra?

— Stai scherzando? Mettere piede nella Zona Sterilizzata significa la morte.

— Capisco. Così, sono costretti a sganciarlo dall’aria. Riconosci quei pirati?

— No. Sono nuovi di qui. È per questo che gli serve quella roccia.

— Sembra che qualcuno li conosca — disse Lindsay. — Guarda là.

Focalizzò la telecamera su un punto al di là dei pirati aerotrasportati fino alla superficie grigio-bruna in pendio del terzo pannello di terra dello Zaibatsu. La maggior parte di quel terzo pannello era una desolata distesa di fango soffocata dalla lanugine, dalla quale s’innalzavano volute di nebbia giallastra.

Vicino ai sobborghi settentrionali distrutti del terzo pannello c’era una tozza cupola multicolore, costruita con pezzi irregolari di ceramica e plastica di recupero. Una folla di cani solari, simili a formiche, scorciata dalla prospettiva, era emersa dalla camera di equilibrio della cupola. Levarono gli sguardi verso l’alto, i volti nascosti dalle maschere col filtro. Avevano trascinato fuori una grossa, rozza macchina fatta di metallo e di plastica, munita di stantuffi, leve e cavi. Con l’aiuto di un martinetto sollevarono la macchina fino a quando una sua estremità non fu puntata verso il cielo.

— Cosa stanno facendo? — chiese Lindsay.

— Chi lo sa? — rispose Ryumin. — Sono quelli dell’Ottavo Esercito Orbitale, o per lo meno è così che si fanno chiamare. Fino ad oggi sono sempre stati degli eremiti.

La nave volante passò sopra di lui, proiettando ombre sfocate sui tre pannelli di terra. Uno dei cani solari attivò la macchina.

Un lungo arpione metallico schizzò fuori e colpì il bersaglio. Lindsay vide lacerarsi il tessuto metallizzato della sezione di coda dell’aeronave. Il giavellotto mandò scintille come se fosse impazzito mentre roteava su se stesso, il suo volo sconvolto dalla collisione e dall’incurvamento provocato dalla forza di Coriolis. Il proiettile metallico scomparve in mezzo agli alberi smozzicati e contorti d’un frutteto in rovina.

L’aeronave era nei guai. Il suo equipaggio scalciava e si dimenava nell’aria, lottando per allontanare dagli attaccanti al suolo il grosso pallone che si stava sgonfiando.

La massiccia pietra che rimorchiavano aveva continuato la sua traiettoria con imperturbabile inerzia, priva di peso. A mano a mano che il cavo del rimorchio si tendeva, cominciò lentamente a strappare via la coda dell’aeronave.

Con uno swoosh di gas, l’aeronave si accartocciò come un contorto straccio metallico. I propulsori precipitarono giù, trascinando dietro di sé il tessuto metallico come un lungo nastro spiegazzato.

I pirati si dibatterono come se stessero affogando, lottando per tenersi dentro la zona priva di peso. La loro situazione era disperata, giacché la zona era infestata da lente correnti discendenti che potevano far precipitare il relitto, condannando i pirati alla morte certa.

La roccia finì dentro il bordo increspato di un turgido banco di nubi. La massa scura virò maestosamente verso il basso, ondeggiando un po’, e poi sparì in mezzo alla nebbia. Qualche istante dopo ricomparve sotto la nuvola, piombando verso il basso con uno stretto, fulmineo arco imposto dalla forza di Coriolis.