— Cosa?
— Le erbacce sono come cani solari. Prosperano sui disastri. Si trasferiscono dovunque i sistemi si sfascino. Dopo questo disastro, le piante che crescono più in fretta sulla Terra brulicheranno…
— Altre erbacce — concluse Vera.
— Sì. — Si lasciarono l’incendio alle spalle, e proseguirono oltre le colline. Lindsay allungò la mano verso uno dei serbatoi delle alghe e inghiottì un po’ di pasta verde.
— Un velivolo — annunciò Pilota.
Per un istante Lindsay credette di vedere un sacco-di-gas mutante, un qualche bizzarro esempio di evoluzione parallela. Poi si rese conto che era una macchina volante, una specie di aerostato o di zeppelin. Una specie di pallone formato da pelli cucite insieme con lunghe e rozze giunture sorreggeva una gondola a traliccio. La superficie della macchina volante era punteggiata da un gran numero di dischi flessibili alimentati ad energia solare, rarefacendosi via via che dalla sommità si scendeva verso il suo bianco ventre. Lunghe gomene d’attracco pendevano dal suo muso, come antenne cadenti.
Si avvicinarono con cautela, e videro più in basso dov’era ormeggiato: una città.
Una rete di strade divideva a scacchiera una distesa di ripari in pietra bianca. Le case erano disposte in ordine intorno a un nucleo centrale che incombeva su di esse: una piramide di mattoni, quadrangolare; lo zeppelin era ormeggiato alla sommità della piramide. L’intera città era cintata da un alto muro, lungo il perimetro di un’area rettangolare; all’esterno, i campi coltivati ardevano di un bianco spettrale, concimati con ceneri.
Una cerimonia era in corso. Una pira avvampava nella piazza di mattoni antistante la piramide. La popolazione della città era schierata in file. Erano meno di duemila. I loro indumenti apparivano sbiancati dall’infrarosso generato dal calore dei loro corpi. — Cosa succede? — chiese Vera. — Perché non si muovono?
— È un funerale, credo — disse Lindsay.
— Cos’è la piramide, allora? Un mausoleo? Un centro d’indottrinamento?
— Tutte e due le cose, forse… Vedi il sistema di cavi? Il mausoleo ha una linea d’informazione, l’unica del villaggio. Chiunque viva lì, ha in mano tutti i collegamenti col mondo esterno. — D’un tratto Lindsay andò col pensiero alla roccaforte a cupola dei Medici Neri Nefrini nello Zaibatsu circumlunare. Da anni non ci pensava, ma ricordava l’atmosfera psichica al suo interno, quella paranoica sensazione d’isolamento, d’un fanatismo che lentamente travalicava i propri limiti a causa della mancanza di variazioni. Un mondo diventato stantio. — La stabilità — disse — i terrestri volevano la stabilità, è per questo che hanno instaurato l’Interdetto. Non volevano che la tecnologia li riducesse in pezzi, come è accaduto a noi. Hanno attribuito alla tecnologia la colpa di tutti i disastri. Le pestilenze durante la guerra, l’anidride carbonica che ha fatto sciogliere le calotte polari… Non possono dimenticare i loro morti.
— Certamente tutto il loro mondo non è così — replicò Vera.
— Dev’esserlo. Dovunque ci sia varietà, esiste il pericolo del cambiamento. Un cambiamento che non può venir tollerato.
— Ma hanno i telefoni, le macchine volanti.
— Tecnologia imposta dall’ambiente — dichiarò Lindsay. — Non una libera scelta.
Mentre proseguivano verso il Pacifico, videro altri due insediamenti, separati da molte miglia di selva suppurante. Gli insediamenti erano identici fra loro come i chip d’un circuito.
Giacevano rannicchiati in maniera innaturale in mezzo al paesaggio; avrebbero potuto benissimo essere stati stampati da qualche pressa idraulica e sganciati dal cielo.
Pilota indicò altre due di quelle turgide macchine volanti. Il loro significato divenne completamente chiaro a Lindsay. Quelle macchine volanti erano come i vettori della peste, trasportavano i virus ideologici di qualche malattia culturale calcificata. Le piramidi torreggiavano nel cuore di ogni abitato, enormi, rimpicciolendo ogni speranza, i soffocanti monumenti delle legioni dei morti.
Le lacrime gli salirono agli occhi. Pianse in silenzio, senza trattenere nulla. Piangeva l’umanità e la cecità degli uomini, i quali pensavano che il cosmo avesse regole e limiti che li avrebbero riparati dalla loro stessa libertà. Non c’erano ripari. Non c’erano scopi finali. La futilità e la libertà erano l’Assoluto.
A sud della catena di isole rocciose della Bassa California, s’infilarono sotto l’oceano. Pilota aprì il portello, inondando d’acqua la stiva, e cominciarono subito ad affondare.
Stavano cercando il più grande, singolo ecosistema del mondo, l’unico bioma che l’uomo non aveva mai toccato.
Le acque di superficie non erano sfuggite al contagio. Sopra le terre allagate sui bordi dei continenti, zattere di muschio e di alghe in decomposizione, l’equivalente oceanico delle erbacce, suppuravano in soffocante profusione. Ma le profondità abissali erano indisturbate. Nella schiacciante tenebra degli abissi, più grande, come estensione, di tutti i continenti messi insieme, le condizioni variavano appena da un polo all’altro. Gli abitanti di questo immenso reame erano scarsamente conosciuti. Nessun essere umano era mai riuscito a inventare un modo per estorcergli dei vantaggi.
Ma nella Matrice Disaggregata i successori degli uomini erano più scaltri. La rassomiglianza di quel regno con i bui oceani di Europa non era sfuggita a Lindsay. Per decenni aveva frugato negli antichi banchi dati alla ricerca di frammenti d’informazione. La documentazione sopravvissuta sulla vita abissale era praticamente inutile, giacché risaliva all’alba della biologia. Ma perfino quei crudi accenni avevano attirato Lindsay, per la loro potenzialità che avrebbe potuto condurre a un improvviso miracolo. Anche su Europa c’erano tenebra e profondità. E le vaste catene sommerse, tagliate da fenditure vulcaniche, che trasudavano energia geotermica.
Gli abissi avevano oasi. Le avevano sempre avute. Quella conoscenza aveva acceso nella sua immaginazione un lento fuoco sotterraneo. La vita, incontaminata, primeva, brulicava di un ribollente splendore ai bordi delle placche tettoniche della Terra.
Un intero ecosistema, più antico dell’umanità, era ammassato in quei luoghi, con tutta la sua miracolosa ricchezza. Una vita che poteva venir catturata, che poteva essere di Europa.
Dapprima, lui aveva respinto quell’idea: l’Interdetto era sacro. Antico come la colpa taciuta degli ancestrali viaggiatori spaziali, i quali avevano disertato la Terra quando si era profilato il disastro. Con la loro diserzione avevano derubato il pianeta proprio di quell’esperienza che avrebbe potuto salvarlo. Nel corso di secoli di vita nello spazio quella colpa era affondata nella buia regione della coscienza culturale, emergendo soltanto come una caricatura, come un rituale diniego e una deliberata ignoranza.
Il commiato era avvenuto nell’odio: con quelli nello spazio bollati come ladri antiumani, e il governo di emergenza della Terra denunciato come una barbarie fascista. L’odio aveva reso le cose più semplici… più semplici poiché aveva permesso a quelli nello spazio di scrollarsi di dosso ogni responsabilità, più semplici poiché aveva permesso alla Terra di affamare la miriade delle proprie culture riducendole a un unico grigio regime di penitenza e inutile stabilità.
Ma la vita si muoveva in clade. Lindsay lo sapeva come dato di fatto. Una specie che avesse avuto successo esplodeva sempre in un’ondata gioiosa di specie discendenti, di mostri che rendevano inefficienti e superati i loro antenati. Negare il mutamento significava negare la vita.
Da quel segno, lui sapeva che l’umanità sulla Terra era diventata un relitto.
A lungo termine, il vasto panorama biologico era diventato l’ossessione di Lindsay, la ruggine che avrebbe divorato qualunque cosa che non fosse stata capace di muoversi. Il futuro della Terra non apparteneva all’umanità ma alle erbe mostruose, divenute strane e legnose, e a qualunque piccola creatura veloce che saltasse e crescesse fra esse. E Lindsay sentiva che c’era giustizia in questo.