Sprofondarono nel buio.
La pressione non significava niente per il loro scafo alieno. I sacchi-di-gas prosperavano in pressioni estreme che facevano sembrare quelle degli oceani della Terra esili come il plasma. Pilota passò ai propulsori ad acqua aderenti all’esterno dello scafo. Attivò il radar ad ampia apertura, e i loro videopannelli s’illuminarono mostrando i contorni verdi e nitidi del fondo abissale.
Il cuore di Lindsay fece un balzo quando vide la familiare geologia.
— Proprio come Europa — mormorò Vera. Stavano fluttuando sopra un’estesa faglia in tensione, dove il basalto vulcanico si era spezzato e squarciato con blocchi impervi che sporgevano verso l’alto, quella fessurata violenza primeva incontaminata dal vento o dalla pioggia. Montagne rettilinee, appena spolverate da trasudazioni organiche, strapiombavano in precipitosi dirupi mozzafiato, dove le linee dei contorni si affollavano come i denti di un pettine.
Ma qui la spaccatura era morta. Non videro nessun segno di energia termale.
— Segui la faglia — disse Lindsay. — Cerca dei punti caldi. — Era vissuto troppo a lungo per essere impaziente, perfino in un momento come quello.
— Devo attivare i motori principali? — chiese Pilota.
— Facendo ribollire l’acqua per molte miglia intorno? Siamo in profondità, Pilota. Quell’acqua è come acciaio.
— Davvero? — Pilota produsse una ronzante vibrazione elettronica. — Bene, preferisco non avere stelle, piuttosto che averle offuscate.
Seguirono la spaccatura per ore, senza trovare un’infiltrazione lavica. Vera dormiva; Lindsay sonnecchiò brevemente, il sonno da gatto di un vecchio. Pilota, che dormiva soltanto in occasioni ufficiali e ben definite, li svegliò.
— Un punto caldo — annunciò.
Lindsay esaminò il suo pannello. Gli infrarossi mostravano una pigra fonte di calore che saliva dalle profondità di una roccia sporgente: questa era estremamente bizzarra, un lungo piano inclinato di levigatezza euclidea, il quale emergeva improvviso da una distesa trasudante di terre marce di composizione mista. Una collina angolosa alla base del dirupo giaceva stranamente distorta, quasi accartocciata, in cima ad una elevazione lavica a forma di cupola. — Manda fuori il fuoco — disse Lindsay.
Vera estrasse i comandi del robot da sotto il suo seggiolino e s’infilò un paio di teleoculari.
Con i fari sfavillanti, il robot tornò facilmente verso l’anomalo dirupo. Lindsay sintonizzò i comandi del suo pannello sugli ottici del robot.
Il dirupo inclinato era dipinto. C’erano strisce bianche su di esso, lunghe pennellate che si stavano staccando, una specie di linea divisoria. — È un relitto — esclamò Lindsay, a un tratto. — Costruito dall’uomo.
— Non può essere — replicò Vera. — Ha le dimensioni d’una grande nave spaziale. Dentro, ci sarebbe posto per migliaia di persone.
Ma poi comparve qualcosa che risolse la questione. Una macchina era attaccata a una liscia superficie sporgente simile a un ponte su quel simulacro di nave. I secoli avevano corroso il manufatto, ma i suoi contorni erano chiari. — È un aereo — disse Pilota. — Aveva getti. Questo era una specie di spazioporto acquatico. Un aeroporto piuttosto.
Una chimera, un pesce abissale dalla lunga coda e dalla testa ottusa, grosso quanto l’avambraccio di un uomo, schizzò via lungo l’ampio ponte della portaerei, alla ricerca di un rifugio. Scomparve attraverso uno squarcio del relitto dai molteplici piani della torre di comando. Il robot si arrestò di botto. — Aspetta — disse Vera. — Se questa è una nave, da dove viene il calore?
Pilota esaminò gli strumenti. — È calore radioattivo — rispose. — È insolito.
— Energia da fissione — spiegò Lindsay. — Dev’essere affondata con una pila nucleare a bordo. — Seppe frenarsi e non aggiungere che, forse, dentro lo scafo avrebbero potuto esserci anche armi atomiche.
Vera disse: — La mia strumentazione indica la presenza di sostanze organiche disciolte. Delle creature sono raccolte intorno alla pila nucleare per goderne il calore. — Azionò le braccia rinforzate del robot, facendogli lacerare una paratia. La lega corrosa cedette facilmente, sollevando un fiotto di ruggine. — Devo inseguirle?
— No — rispose Lindsay. — Voglio il primordiale.
Vera riportò il fuoco nella stiva del loro vascello. Proseguirono a balzi e a scosse. Il tempo passò, il terreno scivolava sotto di loro… uno spettacolo che fino a poco tempo prima avrebbero giudicato orribile. Lindsay si scoprì a pensare di nuovo a Czarina-Kluster. Talvolta lo turbava il fatto che la disperazione, le sofferenze, che venivano patite laggiù, significassero così poco per lui. Czarina-Kluster stava morendo, la sua eleganza si stava dissolvendo nello squallore, il suo delicato, raffinato equilibrio veniva lacerato, i frammenti venivano scagliati come semi attraverso la Matrice Disaggregata. Era malvagio da parte sua accettare il fiore della morte, nella speranza che vi fossero dei semi.
No, non riusciva a convincersi che lo fosse. Il tempo umano non significava più niente per lui. Voleva soltanto che la sua volontà lasciasse il segno, che proiettasse la sua luce lungo quegli sterminati eoni, in un mondo risvegliato, in un pianeta ricondotto irrevocabilmente alla vita. E poi… poi avrebbe potuto mollar tutto, per sempre.
— Ecco — disse Pilota.
L’avevano trovato. L’apparecchio discese.
La vita sorgeva tutt’intorno a loro: una giungla che proliferava anche nell’assenza completa del sole. Alle luci del robot, le ripide e abrasive pareti della valle avvampavano d’una vivida panoplia di colori: scarlatto, bianco-gesso, oro-zolfo, verde ossidiana. Come macchie di bambù, i vermi ondeggiavano sui fianchi delle colline, più alti di un uomo. Le rocce erano ricoperte da un fitto strato di bivalvi, i gusci bianchi spalancati che mostravano carni rosse come il sangue. Spugne purpuree pulsavano, coralli abissali si stendevano in neri boschetti ramificati, le loro braccia sottili ingioiellate di polpi.
L’acqua della vita sgorgava dalle profondità della valle. Camini coperti da un viscidume di ossidi metallici vomitavano nubi roventi di zolfo ricco d’energia. Il fondo del mare ribolliva, bolle ondeggianti di vapore fluttuavano in mezzo a una nebbia di batteri. I batteri erano i più importanti, rappresentavano l’anello fondamentale della catena alimentare. Tramite la chemiosintesi, estraevano energia dallo zolfo stesso, ripudiando la luce del sole per prosperare a spese del calore stesso della Terra.
Nel calore e nel buio la valle ribolliva di vita. La roccia stessa pareva vivere, decorata da protuberanze porose e crepacci limacciosi, tubi rosso-neri di pietra lavica fredda, avvolti come serpenti, camini fallici di minerali precipitati che luccicavano d’un verde ramato a causa della patina prodotta dal contatto con acidi organici solubili, pallidi granchi con chele lunghe come un braccio d’un uomo che scalciavano graziosamente lungo i pendii. Pesci abissali, neri come giaietto, ingrassati dall’inaspettato bottino, che si muovevano con agile languore in mezzo agli steli ammassati degli anellidi. Creature gelatinose d’un giallo vivace, simili a infiorescenze recise, che galleggiavano nei densi mulinelli di zuppa batterica.
— Tutto — mormorò Lindsay. — Voglio tutto.
Vera si sfilò gli oculari; i suoi occhi erano inondati di lacrime. Si accasciò contro lo schienale del suo seggiolino, tremando. — Non riesco a vedere — constatò, con voce rauca. Gli porse la scatola dei comandi. — Per favore… spetterebbe a te, Abelard.