Lindsay si applicò gli oculari, infilò le dita nelle fessure dei comandi, e d’un tratto si trovò in mezzo, gli analizzatori ruotavano in sincronia con i movimenti della sua testa. Protese le braccia per la raccolta dei campioni, estrudendo i delicati meccanismi degli aghi genetici. Avanzò verso il più vicino viluppo di anemoni. Sopra le compatte colonne bianche dei loro tronchi spessi come il polso di un uomo, il loro fogliame era un succedersi di file ondeggianti di rosse fronde piumate lunghe quanto un braccio, che si muovevano con femminea eleganza, rastrellando la vita dall’acqua. I loro bianchi steli erano affollati di grappoli di creature che vi avevano trovato riparo: cirripedi, minuscoli granchi, vermi frangiati d’un azzurro e un verde-mare elettrici, creature gelatinose a forma di pettine che rilucevano di tenui tinte pastello.
Un predatore emerse dalla giungla, spostandosi lentamente intorno ai tronchi: un pesce abissale nero come giaietto, grosso quanto una gamba umana e sfilato come un’anguilla, i suoi fianchi costellati da file serrate di punti fosforescenti. Si avvicinò impavido, affascinato dalla luce. Le branchie pulsavano dietro i suoi occhi enormi: aprì una bocca pallida e luminescente irta di denti. — Così — disse Lindsay — tu sei stato costretto a superare i limiti, spinto a forza nell’abisso dove niente cresce. Ma guarda cos’hai trovato. Il grasso del sistema, cane solare. Benvenuto in Paradiso. — Mentre parlava, mosse il braccio verso il pesce: il lungo ago schizzò fuori, lo toccò e si ritrasse. Il pesce risplendette d’un improvviso oro e verde e saettò via.
Lindsay si spostò verso la foresta, toccando tutto quello che riusciva a vedere, raccogliendo campioni di batteri con i delicati filtri a risucchio. Nel giro di mezz’ora aveva riempito tutte le sue capsule per la raccolta dei campioni ed era tornato alla nave per prenderne altre.
Poi scorse qualcosa che si staccava dallo scafo della nave. A tutta prima pensò che fosse un effetto di luce, una pura increspatura dei riflessi. Poi vide che si muoveva verso di lui, ondeggiando, svolazzando, informe, una massa di gelatina fluida in un sacco argentato a specchio. Sentì Vera che urlava.
Staccò le mani dai comandi e si strappò di dosso gli oculari. Lei era china sopra il videopannello, gli occhi sbarrati. — La Presenza! L’hai vista? La Presenza!
Stava nuotando con un incresparsi e un distendersi simile a quello di un’ameba, inoltrandosi sempre più in profondità nella faglia.
Lindsay tornò a infilarsi gli oculari e riprese in mano i comandi, seguendo l’essere con i fari del robot. La sua superficie informe lanciava sciabolate di splendore riflesso sulle bivalve e sul corallo. Lindsay chiese: — La vedi, Pilota?
Pilota fece fluttuare la nave spaziale per seguire la creatura grazie ai sistemi di puntamento. — Vedo qualcosa… Riflette tutte le lunghezze d’onda. Che strana creatura! Prendine un campione, Lindsay.
— Non è nativa. È venuta fin qui con noi. L’ho vista attaccata allo scafo.
— Allo scafo? È sopravvissuta al vuoto e al gelo dello spazio? E al calore del rientro nell’atmosfera? E alla pressione di questo oceano? Non può essere.
— No?
— No — disse l’aragosta. — Perché, se fosse reale, non sopporterei l’idea di non essere essa.
— Si sta facendo vedere — esultò Vera. — A causa del luogo in cui ci troviamo! Vedi? — Scoppiò a ridere. — Sta danzando!
La creatura stava galleggiando fluidamente sopra uno dei camini fumanti, appiattendosi per irrorarsi di quella corrente ascensionale cauterizzante d’una pressione e d’un calore inimmaginabili. Bolle roventi ballavano sotto di essa scivolando via con facilità dal suo ventre a specchio privo di attrito.
Mentre guardavano, la creatura si raccolse su se stessa, formando un globo increspato. Poi, liquefacendosi all’improvviso, si riversò dentro un crepaccio dello spessore di un pollice, nel cuore stesso di quello sfiatatoio termico. Scomparve all’istante.
— Non l’ho vista — insistette l’aragosta. — No, non l’ho vista scomparire nelle budella della Terra. Possiamo andarcene, adesso? Voglio dire, forse dovremmo cercare di allontanarci da essa.
— No — disse Vera.
— Hai ragione — disse Pilota con voce trepida. — Questo potrebbe farla impazzire.
Vera si meravigliò. — L’hai vista? Si stava godendo tutto questo! Perfino lei lo sa. Sa che questo è il paradiso! — Stava tremando. — Abelard, un giorno, su Europa, tutto questo sarà nostro, potremo toccarlo, sentirlo, respirare l’acqua, odorarla, assaporarla! Lo voglio! Voglio essere là fuori come la Presenza lo è in questo momento… — Stava respirando affannosamente, il suo volto era radioso. — Abelard, se non fosse per te, non avrei mai conosciuto questo… Grazie. Grazie anche a te, Pilota.
— Giusto, sicuro — rispose Pilota, a disagio, con voce flautata. — Lindsay, il fuco? Non dovresti farlo rientrare?
Lindsay sorrise. — Non aver timore, Pilota. Ti ha fatto un favore. Hai visto la potenzialità? Adesso hai qualcosa a cui mirare.
— Ma pensa al potere che deve avere. È come un dio…
— Allora è in buona compagnia, con noi.
Lindsay guidò il fuco dentro la stiva dei campioni e scaricò le capsule genetiche, deponendole nelle rastrelliere a pressione. Ricaricò le sue braccia e tornò al lavoro.
La Presenza emerse, spuntando all’improvviso da un secondo camino, accanto al fuco. Andò alla deriva verso questo, osservandolo. Lindsay agitò un artiglio, ma la creatura non rispose e ben presto si allontanò dai fari del fuco scomparendo nel buio e nell’invisibilità.
La creatura non mostrava nessuna paura del fuco. Vera diede il cambio a Lindsay ai comandi, scostando con delicatezza gli steli elastici degli anemoni per raccogliere tutto quello che riusciva a trovare. Il fuco percorse per l’intera lunghezza il fondo della valle, ficcando il naso nei crepacci, analizzando ogni essudazione.
Ebbero un colpo di fortuna là dove una nuova sorgente calda si aprì all’improvviso bollendo un grappolo di creature ammassate sopra di essa su una sporgenza. Usarono i morti per attirare i predatori, e ne sezionarono qualcuno per studiare la composizione batterica nei visceri e gli agenti della decomposizione.
Il loro campionamento non poteva venir completato, l’oasi era troppo ricca per consentirlo. Ma il loro successo era comunque completo. Nessuna creatura nata nei mari della Terra avrebbe potuto vivere, inalterata, nelle acque aliene di Europa. Quello sarebbe stato il compito degli Angeli di Europa, i vitalateralisti, che avrebbero ereditato questo tesoro genetico. L’avrebbero setacciato, e avrebbero ricostruito nuove creature per le nuove condizioni. Qui gli esseri viventi sarebbero stati modelli, archetipi per una nuova creazione, in cui l’arte e le intenzioni avrebbero preso il posto di un miliardo di anni di evoluzione.
Mentre per l’ultima volta facevano rientrare il robot nella stiva e riportavano la nave in superficie, non videro nessun segno della Presenza. Ma Lindsay non aveva nessun dubbio che fosse con loro.
Mentre lentamente riemergevano, Lindsay cominciò a provare una sensazione di stanchezza. Assai più della sua plasmatrice favorita e del suo mechanist blindato, sentiva il fardello dell’orgoglio gravare su di lui. Chi era lui per aver fatto queste cose? La luce l’aveva attirato, e lui era cresciuto verso di essa come poteva crescere un albero, protendendo le proprie foglie cieche verso una radiosità sconosciuta. Adesso aveva realizzato lo scopo della sua vita, e ne era lieto. Ma un albero muore quando le radici vengono recise, e Lindsay sapeva che le sue radici erano l’umanità. Lui era una creatura di carne e di ossa, di vita e di morte, non una Volontà Immanente.
Un albero traeva la propria forza dalla luce, ma non era la luce stessa. E la vita era un processo di cambiamento, ma non era il cambiamento. Per questo c’era la morte.