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La pagina centrale mostrava l’immagine di un Angelo: un post-umano acquatico. La pelle era nera, liscia e lucida. Le gambe e la cinta pelvica non c’erano più; la colonna vertebrale si estendeva in una robusta coda pinnata. Branchie scarlatte si dipartivano dal collo. La cassa toracica era un apparato nero, aperto, dal quale uscivano bianche reti piumate piene zeppe di batteri simbiotici.

Le lunghe braccia nere erano punteggiate da chiazze fosforescenti, rosse, azzurre e verdi, collegate con il sistema nervoso. Lungo le costole e la coda pinnata si stendevano due linee laterali: quelle strisce dense di nervi ospitavano un nuovo senso acquatico che riusciva a percepire il tremito dell’acqua, come un tocco a distanza. Il naso conduceva a sacchi simili a polmoni pieni zeppi di cellule chemiosensitive.

Gli occhi senza palpebre erano enormi, e il cranio era stato rimodellato per accoglierli.

Constantine spostò il pieghevole davanti ai propri occhi, sforzandosi di metterlo a fuoco. — Molto elegante — disse alla fine. — Niente intestini?

— Sì. Le reti bianche filtrano lo zolfo per i batteri. Ciascun angelo è autosufficiente, ricava vita, calore, ogni cosa dall’acqua.

— Capisco — disse Constantine. — La comunità con l’anarchia… Parlano?

Lindsay si sporse in avanti, indicandogli le luci fosforescenti. — Ardono.

— E si riproducono?

— Sono laboratori genetici. I bambini possono essere creati. Ma queste creature possono durare per secoli.

— Ma dov’è il peccato, Abelard? Le menzogne, la gelosia, la lotta per il potere? — Constantine sorrise. — Suppongo che possano commettere qualche atto illecito insito nell’ecosistema.

— Non gli manca l’ingegno, Philip. Sono sicuro che troveranno il modo di commettere dei crimini, se ci si metteranno di buona volontà. Ma non sono come eravamo noi. Non sono costretti a farlo.

— Costretti… — Un’ape atterrò sul viso di Constantine, il quale la scostò con delicatezza. Disse: — Il mese scorso sono andato a visitare il luogo dell’impatto. — Intendeva dire, il punto dove Vera Kelland era precipitata. — Là ci sono alberi che sembrano vecchi come il mondo.

— È passato moltissimo tempo.

— Non so cosa mi aspettassi… Una specie di bagliore dorato, forse. Un luccichio che indicasse dov’era sepolto il mio cuore. Ma noi siamo ben piccole creature, e al cosmo non interessa. Non c’era nessuna traccia. — Sospirò. — Volevo misurarmi contro il mondo. Così, ho ucciso ciò che avrebbe potuto trattenermi.

— Eravamo gente diversa, allora.

— No. Pensavo di poter cambiare me stesso… pensavo che con te morto, oltre a Vera, sarei stato una lavagna pulita, una macchina per l’ambizione pura… Ho tentato di conquistare il potere sopra l’amore. Volevo ogni cosa in ceppi. Ho cercato, infatti, di mettere tutto in ceppi… ma i ceppi si sono rotti per primi.

— Capisco — annuì Lindsay. — Anch’io ho imparato il potere dei progetti, dei piani. L’ambizione della mia vita mi attende su Europa. — Riprese il pieghevole. — Potrebbe essere anche la tua. Se la vuoi.

— Ti ho detto nel mio messaggio che ero pronto a morire — replicò Constantine. — Tu vuoi sempre schivare le cose, Abelard. Noi risaliamo indietro di molto, di troppo… perché parole come “amico” o “nemico” possano avere significato… Non so come chiamarti, ma ti conosco. Ti conosco meglio di chiunque altro, meglio di quanto tu conosca te stesso. Quando ti troverai a dover affrontare la consumazione, ti farai da parte. So che lo farai. Non vedrai mai Europa.

Lindsay chinò la testa.

— Deve finire, Abelard. Io mi sono misurato contro il mondo, è per questo che sono vissuto. E ho proiettato una grande ombra. Vero?

— Sì, Philip. — La voce di Lindsay suonò soffocata. — Anche quando ti ho odiato maggiormente, ero orgoglioso di te.

— Ma misurare me stesso contro la vita e la morte, come se potessi andare avanti per sempre… Non ce dignità in questo. Cosa siamo noi per la vita? Siamo soltanto scintille.

— Scintille che danno inizio a un falò, forse.

— Sì. Europa è il tuo falò, ed io te lo invidio. Ma se andrai su Europa, tu finirai per smarrirtici. E non potresti sopportarlo.

— Ma tu potresti farlo, Philip. Potrebbe essere tua. La tua gente sarà là. Il clan dei Constantine.

— La mia gente… sì. Tu li hai cooptati.

— Avevo bisogno di loro. Mi serviva il tuo genio… E loro sono venuti da me spontaneamente.

— Sì… Alla fine la morte ci sconfigge. Ma i nostri figli sono la nostra vendetta contro di essa. — Sorrise. — Ho cercato di non amarli, volevo che fossero come me, tutto acciaio e bordi affilati. Ma li ho amati lo stesso… non perché erano come me, ma perché erano diversi. E quelli più diversi di tutti li amavo di più.

— Vera?

— Sì. L’ho creata dai campioni che ho rubato qui, nella Repubblica. Squame di pelle. Genetici di coloro che amavo… — Fissò Lindsay con aria implorante. — Cosa puoi dirmi di lei, Abelard? Come sta tua figlia?

— Mia figlia…

— Sì. Tu e Vera eravate una coppia splendida… Pareva un peccato che la morte dovesse inaridirvi. Anch’io amavo Vera; volevo proteggere il suo bambino, e il bambino dell’uomo scelto da lei. Così, ho creato tua figlia. Ho sbagliato a farlo?

— No — rispose Lindsay. — La vita è comunque migliore.

— Le ho dato tutto quello che potevo. Come sta?

Lindsay provò una sensazione di vertigine. Sotto di lui, il robot infilò un ago nella gamba insensibile. — Adesso è nei laboratori. Sta subendo la trasformazione.

— Ah, bene. Fa le sue scelte. Come tutti dobbiamo farle. — Constantine allungò la mano sotto la sua sdraio. — Qui ho del veleno. Me lo hanno dato gli inservienti. Ci concedono il diritto di morire.

Lindsay annuì distratto, mentre i farmaci calmavano le pulsazioni del suo cuore. — Sì — disse. — Ci meritiamo tutti quel diritto.

— Potremmo fare una passeggiata fino al punto dell’impatto, tu ed io. E bere il veleno. Ce n’è abbastanza per due. — Sorrise. — Sarebbe bello avere compagnia.

— No, Philip, non ancora. Mi spiace.

— Ancora nessun impegno, Abelard? — Constantine gli mostrò una fiala di vetro piena d’un liquido brunastro. — Fa lo stesso. Ho problemi di deambulazione. Ho problemi con le dimensioni, fin dai… dai tempi dell’Arena. È per questo che mi hanno dato dei nuovi occhi. Gli occhi vedono le dimensioni per me. — Svitò il tappo della fiala con le dita nodose. — Adesso vedo la vita per quello che è. È per questo che devo farlo. — Si portò il veleno alle labbra e lo inghiottì. — Dammi le mani.

Lindsay protese le mani. Constantine gliele afferrò. — Ora sono metalliche tutte e due?

— Mi spiace, Philip.

— Non importa. Tutte le nostre belle macchine… — Constantine ebbe un breve fremito. — Porta pazienza, non ci vorrà molto.

— Sono qui, Philip.

— Abelard… Mi spiace. Per Nora. Per la crudeltà…

— Philip, non… Ti perdono. — Ma era troppo tardi. Constatine era morto.

Circumeuropa
25-12-’86

Ciò che rimaneva della vita su Circumeuropa era ammassato nei laboratori. Quando Lindsay sbarcò, trovò la dogana deserta. Circumeuropa era finita; tutte le importazioni non avevano più importanza.

Seguì un corridoio serpeggiante attraverso le translucide pareti membranacee. I corridoi luccicavano, dipinti di tutte le sfumature verdeazzurre dell’acqua del mare. Erano quasi del tutto deserti.

Lindsay intravide di tanto in tanto cani solari e abusivi, venuti per il bottino e le cianfrusaglie. Un gruppo di loro lo salutò con un cenno cortese della mano mentre segavano rumorosamente una parete indurita. Anche una nave degli investitori aveva attraccato, ma non c’era segno del suo equipaggio.