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Ora che si trovava a un nuovo bivio della sua vita, sentiva il bisogno di rivedere la madre.

Arrivò al suo villaggio, Phelta, che era mattina inoltrata. Il cielo era nero e gonfio di pioggia, un cielo da tempesta che incombeva come una cappa sulle poche case del suo paese natale. Non c’era in giro nessuno, dovevano essersi tutti rintanati in previsione della mareggiata. C’era umidità nell’aria e Sennar inspirò il profumo del mare, forte, penetrante, che arrivava fin nell’entroterra.

Il villaggio era un agglomerato di casette in muratura con il tetto di paglia, le abitazioni tipiche di quelle terre, circondato da una robusta palizzata di legno. Era un paese piccolo, non più di duecento abitanti in tutto, e aveva un aspetto modesto. Le case erano ammassate le une sulle altre, come un gruppo di bimbi spauriti in territorio straniero. Sennar non aveva molti ricordi di quel posto. Era nato lì, ma lui e la sua famiglia avevano dovuto abbandonare presto il villaggio per i campi di battaglia. Vi tornava poche volte l’anno, in coincidenza con le licenze di suo padre, e solo in quelle occasioni poteva riallacciare i rapporti interrotti, ritrovare gli amici. Ma quella era casa sua. La sua patria, la sua Terra.

Prima di andare dalla madre, volle fare un giro; sentiva il bisogno di riappropriarsi di quei luoghi, calpestare la pietra del selciato, sentire i profumi, sfiorare l’intonaco delle case corroso dal mare. Si perse a vagabondare per i vicoli stretti e tortuosi, si attardò nella minuscola piazza centrale, dove nei giorni di festa si teneva il mercato, indugiò sul molo, un’esile lingua di legno sospesa sull’oceano.

D’un tratto vide tutto con gli occhi di quando era bambino e fu travolto da una moltitudine di ricordi sopiti: immagini fugaci di giochi tra le case, di amici perduti, di piccole gioie. Cose dimenticate, forse troppo in fretta.

L’idea di rincontrare sua madre lo emozionava. Quando fu davanti alla porta, Sennar sentì provenire dall’interno rumore di stoviglie. Esitò per qualche istante, poi bussò.

Gli aprì una donna minuta e lentigginosa, invecchiata dall’ultima volta che Sennar l’aveva vista. Portava un semplice vestito nero, da povera gente che rammenda all’infinito l’unico abito che possiede, ma ingentilito da un colletto di pizzo. Un tempo anche lei aveva gli stessi capelli rosso fuoco del figlio, ma ora la sua chioma, raccolta in una morbida crocchia, era striata da ciocche bianche. Però gli occhi erano ancora quelli di quando era ragazza, di un verde allegro e vivo, e si accesero appena videro Sennar. «Sei tornato.» Lo abbracciò forte.

I fiori freschi sul tavolo, i centrini ricamati sui mobili, la pulizia impeccabile: Sennar riconobbe la cura e le piccole attenzioni della madre.

La donna si precipitò subito ai fornelli e caricò la stufa a legna. «Perché non mi hai avvertita che saresti venuto? Non ho niente da darti, solo quel poco che ho in dispensa. È un’occasione speciale, bisognerebbe festeggiare.» Intanto andava avanti e indietro per la cucina, apriva credenze e prendeva pentole.

«Non ti preoccupare, mamma» cercò di rassicurarla Sennar.

Era un piacere vederla affaccendata ai fornelli e lui finse di essere tornato bambino, quando suo padre era ancora vivo e la loro famiglia unita.

Mentre cucinava, la donna non smise di parlare, gli chiese della sua vita e gli raccontò la propria, ma chiacchierarono anche di cose futili di tutti i giorni, esattamente quello di cui Sennar sentiva la mancanza.

Quando il pranzo fu pronto, si sedettero a tavola. Sua madre era sempre stata un’ottima cuoca, anche con pochi ingredienti sapeva imbastire pietanze da re. Aveva preparato una zuppa di pesce e verdure in cui intingere pane alle noci.

Davanti ai piatti fumanti, nella quiete raccolta della casa, la donna poté finalmente guardare il figlio con calma. «Come sei cresciuto...»

Sennar arrossì.

«Sei proprio un uomo... un consigliere...» Gli occhi della donna si colmarono d’orgoglio. «Non mi sono ancora abituata all’idea, sai? Raccontami. Dimmi come vivi, come te la cavi.»

Sennar la accontentò, sebbene il rimorso gli stringesse la gola come un cappio. Nonostante fossero passati anni, nonostante mai la madre gli avesse fatto pesare la sua scelta, Sennar era ancora convinto fin nel profondo di averla abbandonata, lei e sua sorella. Del resto, non aveva lasciato quella casa per seguire i suoi sogni, permettendo che Soana lo conducesse lontano, in una terra non toccata dalla guerra? La sua era sempre somigliata troppo a una fuga. Quando ebbe terminato, le strinse una mano. «E tu, mamma? Come va?»

«Tutto come al solito. I ricami si vendono bene, anche se non tanto quanto una volta. La guerra si fa sentire fino a qui. Però non mi lamento, guadagno abbastanza da sopravvivere e me la cavo meglio di molta altra gente. Ho una vita piena, sai? La casa è sempre affollata di amiche che mi vengono a trovare.»

Sennar abbassò gli occhi. «E Kala?»

«Kala sta bene. Certo, mi manca, ma la vedo spesso.» La donna prese il volto del figlio tra le mani. «Sennar, guardami. Checché ne dica tua sorella, hai fatto la scelta giusta. Io sono contenta dell’uomo che sei diventato.»

«Devo vederla» disse Sennar.

La madre lo guardò seria. «Che cosa c’è, figlio mio? Mi sembri... non so... strano, inquieto.»

«Non ho niente, è solo che... devo fare un viaggio, in una terra lontana da qui. È per questo che sono venuto. Starò via per un po’.»

Non voleva dirle la verità. L’importante era averla vista un’ultima volta, il resto non contava.

Sua madre lo scrutò a lungo e cercò di leggergli in viso che cosa lo tormentasse. Poi abbassò gli occhi. «Ora abita in una casa dall’altro lato del paese, in riva al mare» mormorò.

Sennar si avviò a piedi. Il cielo era livido di nuvole e non ci volle molto perché iniziasse a piovere. Il mare si stagliò immenso davanti a lui.

Le onde si infrangevano sulla banchina con violenza e sommergevano tutto ciò che incontravano. Era il mare possente della sua infanzia, lo stesso mare dal cui ventre lui e il padre strappavano i pesci nei giorni di festa. Lo stesso mare in cui si tuffava felice. Ora sembrava adirato con lui.

Sennar si incamminò sul pontile. I cavalloni gli parvero montagne, ma non aveva paura. Si lasciò sommergere da un’onda e ne uscì indenne, avvolto da un campo azzurrino: una barriera magica, un semplice incantesimo difensivo. «Ti ho battuto» disse ridacchiando. Poi vide in lontananza la casa. Rabbrividì, completamente fradicio, e sentì il coraggio venirgli meno.

Si fermò e si guardò intorno. Forse poteva prima fare un salto alla locanda. Era poco distante da lì e doveva andarci comunque, prima o poi. Rimandò l’incontro con la sorella e deviò dalla strada.

Un uomo anziano, con la barba bianca e il viso scurito dal sole, spingeva a fatica una botte verso l’ingresso della locanda e imprecava contro la pioggia.

Sennar lo riconobbe subito: solo Faraq conosceva tanti modi per maledire qualcosa. Quando gli fu vicino, esclamò: «Hai bisogno di una mano?». L’uomo sussultò e si voltò di scatto. «Sei impazzito? Vuoi farmi prendere un accidente? Chi diavolo sei?»

Sennar represse un sorriso. Il locandiere era rimasto il solito vecchio burbero. «Non ti ricordi di me?»

Faraq lo squadrò con occhio critico, quindi si colpì la fronte con la mano. «Ma certo! Sei Sennar, il mago. Accidenti, sto proprio invecchiando. L’ultima volta che ti ho visto eri un ragazzino e ora sei più alto di me.» Rise e gli assestò un paio di forti pacche sulle spalle. «Perché stiamo qui fuori a bagnarci come pesci? Vieni dentro.»

La locanda era completamente diversa da come la ricordava Sennar, sembrava rimpicciolita. Il mago si sedette a uno dei tavoli in legno massiccio mentre Faraq spariva dietro al bancone.

«Bisogna festeggiare. Con questo tempaccio ci vuole qualcosa di forte» disse il vecchio, poi portò al tavolo una bottiglia piena di liquido violaceo e due bicchieri. «Bentornato, ragazzo.»

Faraq alzò il bicchiere e lo svuotò in un colpo solo. Sennar lo guardò. L’ultima volta che era passato alla locanda aveva i capelli appena ingrigiti e, quando rideva, il reticolo di rughe intorno agli occhi era solo accennato. Per gli dèi, quanto tempo è passato? Il ragazzo buttò giù un sorso. Fu sufficiente a farlo tossire, la gola in fiamme.