«Gli elfi» sussurrò Nihal.
«Già. Gli elfi non concepivano la magia come la intendiamo noi. Erano più simili alle ninfe che agli uomini: esseri così vicini alla natura da saperne cogliere ogni sfumatura. Alle altre creature la loro capacità di guidare il corso della natura sembrava magia. Sì, gli elfi erano in grado di utilizzare appieno i poteri della Lacrima. Era un tramite tra loro e i segreti più nascosti del mondo, e grazie a quella pietra la loro comunione con gli spiriti diventava ancora più profonda.» Il vecchio si interruppe e scosse la testa. «Poi il loro popolo si indebolì. Gli elfi emigrarono verso terre lontane, abbandonarono il Mondo Emerso e l’unica traccia del loro passaggio fu la tua stirpe. Voi mezzelfi, nati dall’unione tra elfi e uomini, avete perso parte della vicinanza con gli spiriti primigeni. Per i tuoi avi, i poteri più profondi della Lacrima divennero inaccessibili, ma impararono comunque a sfruttare quelli più blandi. I mezzelfi usavano la pietra per aiutarsi nella magia, così per voi la resina dei Tomren divenne una sorta di catalizzatore.»
Catalizzatore. Anche Phos l’aveva chiamata così.
Nihal rifletté in silenzio per qualche istante. «Ma io non ho pronunciato nessuna formula. La pietra ha agito da sola, come di sua volontà.»
«Non devi stupirti, Nihal. Nelle tue vene scorre sangue elfico e ciò fa sì che la Lacrima possa svegliarsi in tutta la sua potenza. Quella sera nel bosco è accaduto proprio questo. Il tuo desiderio di vivere ha attivato la pietra ed essa ti ha protetta, ha reagito contro creature nate dalla violenza sulla natura: i fammin.»
Nihal guardò con stupore la sua spada. «Come si fa ad attivarla?»
«Questa è una domanda difficile. Forse un giorno imparerai, ma dovrai farlo da sola. Sei tu il mezzelfo, non io.»
Nihal fece una smorfia di disappunto. Un potere così grande ed era inutilizzabile. Chissà perché Phos le aveva fatto quel regalo. «Non sai dirmi altro?» chiese con un pizzico di speranza.
«Forse» rispose il vecchio. «Hai mai sentito una sensazione strana, come se sentimenti non tuoi si impadronissero della tua anima?»
Le parve che nella mente le si fosse accesa una fiammella. «Sì, certo, mi è capitato più di una volta.»
«È una facoltà che solo quelli della tua razza possedevano. I mezzelfi hanno percezioni più ampie di quelle delle altre creature di questo mondo e sentono con più forza lo spirito della natura e degli esseri viventi. In te si riduce a una vaga sensazione, ma la tua gente sapeva affinare queste capacità con lo studio. I mezzelfi esercitavano tale facoltà fin da piccoli. È per questo che erano imbattibili in guerra: leggevano i pensieri dell’avversario e ne anticipavano le mosse.»
Nihal lo guardava con stupore. «Quindi anch’io, se volessi...»
Il vecchio scosse la testa. «Non è rimasta alcuna traccia dell’addestramento che seguivano i tuoi simili, dunque non c’è modo che tu possa coltivare questa dote. Certo, forse col tempo imparerai a farne buon uso, ma non sarai mai in grado di leggere nella mente altrui. Però puoi metterti in contatto con gli spiriti naturali, avere accesso a certe formule...»
Il vecchio si interruppe di colpo e Nihal ebbe la sensazione che volesse cambiare discorso.
«Quali formule?»
«Niente. Nulla che ti possa essere utile» rispose lui con un cenno vago della mano. «Ma tornando alla Lacrima, non è stato un caso che ti abbia aiutata.» Chiuse gli occhi, come se cercasse di riportare qualcosa alla mente. «Non vedo con chiarezza, ma sento che sei legata a quella pietra, che è nel tuo destino. È come l’ombra di qualcosa di più grande. Un fine che ti attende nel futuro.» Poi tacque e riaprì gli occhi.
«Che cosa vuoi dire?» chiese Nihal.
«Chissà.» Il vecchio scrollò le spalle. «I miei occhi vedono, ma non sempre la mia mente capisce. Capire sta a te.» Sorrise. «Be’, che fine ha fatto tutto il tuo ardore? Non avevi un amico da salvare?»
Nihal scattò in piedi. «Portami da loro» disse decisa.
Il vecchio si diresse verso l’uscita della grotta. Prima di rinfoderare la spada e seguirlo, Nihal guardò ancora una volta il candido lucore della pietra. Le parve che la chiamasse.
12
Il conte.
Ondine arrivò trafelata davanti alla cella.
Sennar si avvicinò alle sbarre, preoccupato. «Che cosa succede?»
«Hanno deciso di giustiziarti!» Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime. «La gente ha paura e le guardie vogliono sbarazzarsi di te.»
«Non è possibile» mormorò Sennar. «Non ha senso.»
Ondine scoppiò a piangere. «La data dell’esecuzione verrà annunciata domani.»
Sennar allungò una mano fuori dall’inferriata e le toccò una spalla. «Non piangere. Ascoltami. C’è un modo per fermare l’esecuzione?»
La ragazza si asciugò le guance e annuì.
La piazza era gremita. Quando il conte Varen riceveva era giorno di festa e nel capoluogo della contea si riversava gente da tutti i paesi vicini.
Il conte era un uomo imponente, sulla cinquantina. Tutto in lui sembrava grande e minaccioso: un ampio petto, mani grosse e tozze, un collo taurino. La parte superiore del capo era calva e lucente, e i pochi capelli che gli restavano erano legati con un nastro di seta in un sottile codino, alla moda della sua gente. I tratti decisi del volto lo facevano rassomigliare a una statua che fosse stata sbozzata dalla pietra con pochi colpi vigorosi. Sedeva su un seggio rialzato e appariva annoiato. Il suo sguardo spento vagava sulla folla ai suoi piedi: un’altra noiosa seduta, un’altra giornata di lamentele e beghe di paese.
C’era stato un tempo, quando era giovane e fiducioso, in cui aveva creduto nel suo compito, in cui era stato certo di poter cambiare qualcosa con il suo operato. Sognava di fare dei suoi sudditi individui consapevoli, pronti a prendere decisioni e magari anche ad autogovernarsi, come era stato in passato. Aveva cercato di fare di quelle udienze un’occasione di crescita, ma i suoi tentativi si erano scontrati con l’indifferenza del popolo, che si chiedeva perché lui la facesse tanto lunga e non si limitasse a dispensare grazie e punizioni come i suoi predecessori. Quella gente non voleva la libertà. Voleva essere comandata, voleva qualcuno davanti a cui inginocchiarsi. Qualcuno che li sollevasse dal peso di pensare con la propria testa. Alla fine aveva ceduto. Era diventato quello che i suoi sudditi volevano: un despota.
Quel pomeriggio aveva già dovuto dirimere un paio di questioni di confine e un litigio familiare a causa di una misera eredità, e ascoltare una sfilza di mogli che peroravano per i mariti.
Il conte fece un cenno al banditore, che avanzò e declamò: «L’udienza è finita! Disperdetevi! L’udienza è finita!». «Aspettate! Aspettate, vi supplico! Datemi ascolto!» strillò una voce femminile e continuò a farlo finché non giunse alle orecchie del conte.
Qualcuno cercava di farsi largo nella calca, avanzava poco alla volta, si intrufolava fra petti e schiene.
La folla si aprì lentamente e all’uomo apparve una ragazzina minuta. Al suo incedere la gente si scostava con ripugnanza: era una nuova.
«Vieni avanti» disse il conte.
Era la prima volta che gli chiedeva udienza una persona così giovane. Avrebbe potuto essere sua figlia. La fanciulla giunse fin sotto il blocco di marmo su cui poggiava lo scanno, mentre un silenzio di piombo scendeva sull’uditorio.
«Il mio nome è Ondine, conte» disse ansimando «arrivo da Eressea, il villaggio nei pressi del gorgo. Vengo a implorarvi di risparmiare la vita di una persona.»
Il conte vide che tremava. «Un tuo familiare?»
«No, signore. È un prigioniero.»
«E qual è il suo reato?»
La fanciulla esitò. Ai piedi del trono sembrava ancora più piccola. «È... è uno di Sopra, signore» disse a mezza voce.
La folla si allontanò da lei ancora di più e iniziò a mormorare. Il conte assunse un’espressione accigliata.