«Ha rischiato la vita per arrivare quaggiù» continuò lei. «È un giovane ambasciatore.»
«Ti ha detto perché è venuto?»
«Sì, signore. Un tiranno sta cercando di conquistare il Mondo Emerso. Il ragazzo dice che potrebbe estendere il suo dominio fin qui.»
Il conte sorrise. «Mia cara fanciulla, sai bene quanto siano infidi quelli di Sopra.»
«No, conte» sbottò la ragazza. «So cosa state pensando: che sono solo una ragazzina ingenua. Ma quel ragazzo non ha fatto niente di male. Tutto quello che chiede è di poter parlare con voi. Mi ha detto di mostrarvi questo.»
Estrasse da sotto il corpetto un medaglione, che il banditore le strappò dalle mani per passarlo al conte.
Su una faccia era inciso un grande occhio, sull’altra un simbolo che il conte riconobbe subito come quello della Terra del Vento. Non l’aveva dimenticato, i suoi antenati provenivano da lì.
Era la prima volta che Varen metteva piede in una prigione. Di solito i carcerati venivano condotti al suo cospetto durante le udienze, all’aperto. L’odore di muffa che stagnava tra quelle pareti lo prese alla gola.
Al suo arrivo la guardia si inchinò rispettosamente.
«Mi spiace che vi siate dovuto scomodare, conte. Non credevamo di contrariarvi, condannando a morte quell’infiltrato...»
Varen interruppe il soldato con un cenno infastidito. «Ebbene? Di che si tratta?»
La guardia fece rapporto. «L’hanno trovato due bambini nei pressi del gorgo, signore. Io l’ho sorpreso a girovagare per Eressea e appena l’ho riconosciuto come uno di Sopra l’ho sbattuto in cella. Credo che qualcuno l’abbia ospitato per qualche tempo; nessuno attraversa illeso il gorgo. Sto indagando. I colpevoli verranno presto assicurati alla giustizia.»
Il conte annuì, annoiato. «Sì, sì. Portami da lui.»
Davanti alla cella li attendeva un vecchissimo mago con lunghi capelli bianchi. Il conte lo conosceva, si chiamava Deliah.
«Il prigioniero è un mago, signore, ma non ho avuto modo di saggiarne i poteri» disse il vecchio con voce roca. «Ho preferito imporgli la formula di privazione prima che potesse nuocere. Adesso la formula è ancora attiva, ma tra qualche giorno egli riacquisterà i poteri. Suggerisco che venga giustiziato prima che ciò accada.»
«Questo sta a me deciderlo» tagliò corto il conte Varen. «Ora voglio conoscerlo.»
La guardia aprì le sbarre della cella buia e il conte intravide una figura seminascosta nell’oscurità.
«Che cosa fai lì impalato, bastardo? Prostrati!» urlò il soldato.
Il conte lo fulminò con lo sguardo. «Non osare mai più trattare così un prigioniero, o dovrai trovarti un altro lavoro» disse in tono fermo. «Andate pure, voglio parlargli da solo.»
«Ma, conte...» iniziò la guardia.
«Andate» ripeté, in un tono che non ammetteva repliche.
La guardia si dileguò, seguita dal venerabile Deliah.
Il conte osservò con attenzione il prigioniero, ritto al centro della cella. La fanciulla gli aveva detto che era giovane, ma quello che si trovava davanti era un ragazzino. Represse un moto di istintivo ribrezzo per la sua pelle scura, i capelli rosso fuoco e la lunga tunica sdrucita. «Parlate. Vi ascolto.»
«Vi ringrazio per avermi concesso udienza, conte» esordì il ragazzo con voce sicura. «Il mio nome è Sennar e rappresento la Terra del Vento all’interno del Consiglio dei Maghi. Devo raccontarvi una storia lunga e dolorosa. Spero di non tediarvi, ma è indispensabile perché possiate capire la situazione in cui versa il mio mondo...»
Dopo che Sennar ebbe finito di parlare, il conte si lasciò andare a una risata di scherno. «Mi state dicendo che dovremmo dare aiuto militare a chi ha cercato di conquistarci?»
«Ascoltate, vi prego. Per un anno ho lottato al fianco dell’esercito nella Terra del Vento. Ho visto morire migliaia di giovani che combattevano per un futuro migliore. Negli accampamenti la situazione peggiora di giorno in giorno. Non sono solo il sangue, le perdite, le sconfitte. È la sensazione di impotenza, lo scoraggiamento. Siamo allo stremo, conte. E ho capito che non ce la faremo mai a vincere. Per questo sono qui. Il Tiranno è più forte, ha più uomini e il suo esercito è pronto a tutto. Noi abbiamo solo la volontà di non soccombere e di tornare a vivere in pace.»
«In pace!» ripeté il conte in tono sarcastico. «Voi non siete capaci di vivere in pace. Avete sempre anteposto i vostri interessi personali al bene collettivo. Questa è la vostra ennesima, assurda guerra. Ed è affar vostro.»
«La gente che ho visto morire non pensava al proprio interesse: lottava per tutto il Mondo Emerso, per i vivi e per i morti, per chi era indifeso e per chi era armato. Questa non è una guerra come le altre. È l’attacco di un uomo solo contro tutte le Terre. I nostri popoli sono fratelli, conte. Le nostre Terre sono le Terre in cui sono nati i vostri avi, e i loro desideri di allora sono i nostri di oggi: pace e libertà.» Sennar era rosso in volto e teso verso il suo interlocutore. «Il Tiranno non si accontenterà del Mondo Emerso, credetemi. Se io sono riuscito ad arrivare fin qui, perché non potrebbe farcela anche il suo esercito?» Sennar fece una pausa e riprese fiato. «Vi chiedo solo di poter parlare con il re» mormorò.
Il conte rimase pensieroso per qualche istante, poi si avvicinò alla porta della cella. «Guardia!»
«Pensateci!» urlò Sennar, mentre le sbarre si richiudevano sul suo viso.
Seduto sulla branda, Sennar ripensava all’incontro con il conte. Aveva avuto l’occasione di salvare il suo mondo e l’aveva persa. A che cosa era servito tutto ciò che aveva fatto? I rischi, la speranza, il dolore...
Le sbarre si aprirono piano e Ondine entrò nella cella. La porta sbatté con violenza alle sue spalle e lei restò in piedi, il vassoio tra le mani.
«Ho chiesto alla guardia di farmi entrare.» Arrossì. «Ho pensato che magari... ecco, che stasera ti facesse piacere cenare in compagnia.»
«Scusami, Ondine. Stasera non ho voglia di mangiare» disse il ragazzo con una smorfia.
«Non ti abbattere, Sennar» esclamò lei con slancio. «Hai convinto me, perché le tue parole non possono aver toccato anche il conte?»
Il mago sorrise. In fin dei conti era felice che Ondine fosse lì, davanti a lui, e non dietro le pesanti sbarre della cella. Le si avvicinò. «Grazie per tutto quello che fai per me» disse, poi le sfiorò i capelli.
Ondine reagì con un sussulto, ma non si spostò.
Nonostante avesse lo stomaco serrato, Sennar mangiò. Era grato a Ondine, perché lo aveva aiutato, perché gli aveva dato fiducia, perché era lì a fargli compagnia nello squallore di quella cella.
Parlarono a lungo, come sempre, accoccolati sulla branda. Le loro parole salutarono gli ultimi raggi di luce e inaugurarono la notte degli abissi.
Quando si fece buio, Ondine si alzò. «È tardi, devo andare.»
Sennar rimase seduto. Non voleva restare solo, non quella notte.
Ondine si chinò su di lui in modo da poterlo guardare negli occhi. «Hai fatto del tuo meglio. Gli dèi ascolteranno le tue preghiere e le esaudiranno» disse. Gli diede un bacio sulla guancia.
Sennar le afferrò una mano e la trattenne.
«Ti prego, Sennar...» sussurrò la ragazza, ma il mago la attirò a sé, la strinse come se non avesse altro al mondo.
Ondine ricadde sulla branda e si lasciò andare a quell’abbraccio. Sennar ne sentì il profumo, il corpo tiepido. La baciò con forza e lei rispose, lo seguì come se non attendesse altro che quel momento. Sennar non pensò più a nulla. La bocca si fece avida, le mani corsero al corpetto.
Che cosa sto facendo? Si staccò di scatto, rosso in volto, e Ondine saltò giù dalla branda e si guardò intorno per accertarsi che nessuno li avesse visti, mentre si aggiustava il vestito stropicciato.
«Perdonami» mormorò Sennar.
La ragazza prese in fretta il vassoio e chiamò la guardia. Poi le sbarre si aprirono e lei scomparve nell’oscurità.