«Giurami che non farai più niente, giuralo.»
Nihal annuì, costernata. Restò in silenzio per qualche istante, a maledire tra sé il proprio caratteraccio. «Andrai?» chiese infine a Laio.
«Non ho altra scelta.»
L’arena interna in cui si sarebbe svolto il duello era l’unica zona della casa di Pewar a essere illuminata. Era un cortile quadrato, posto esattamente al centro della dimora, essenziale come tutto il resto. Il pavimento era in terra battuta, circondato da un porticato. Lì sotto, al riparo dal sole violento d’inizio estate, c’era un seggio di legno massiccio. Pewar vi sedeva tronfio.
Nihal si mise in un angolo, all’ombra. Sperava di non essere notata. Dopo la sua alzata di testa, Pewar non avrebbe certo apprezzato la sua presenza, ma non poteva mancare. Lì, in quel quadrato polveroso, Laio stava per giocarsi il futuro.
L’avversario che avrebbe dovuto affrontare era un ragazzo poco più grande di lui, ma con l’aria del guerriero fatto e finito; probabilmente un soldato semplice costretto dal generale a quella farsa.
Laio apparve dopo un po’. I panni del guerriero non gli si addicevano. Indossava una giubba in pelle e stivali di cuoio che arrivavano a mezza coscia. In mano aveva una lunga spada dall’elsa elaborata. Nihal se la ricordava; era in bella vista nel salone dove aveva scelto il pugnale.
Laio aveva la fronte corrugata e gli occhi stretti in una fessura. Forse suo padre lo credette concentrato, ma Nihal conosceva quell’espressione: era triste perché doveva impugnare la spada e combattere, perché doveva rivivere il terrore della battaglia, perché quello non era il suo posto.
Il ragazzo prese posizione nell’arena e il suo contendente lo salutò con la spada. Laio non rispose e si voltò verso il padre. «Non è così che mi piegherai.»
«Taci e combatti» rispose Pewar, in tono quasi annoiato.
«Te lo ripeto ancora, non voglio.»
La voce di Pewar fu un tuono che squarciò la cappa di tensione che aleggiava sull’arena: «Mettiti in guardia e battiti da uomo!». Laio rimase al suo posto.
«Attaccalo» ordinò Pewar al soldato.
«Ma generale... non è in guardia...»
«C’è qualcuno che obbedisce ai miei ordini qui dentro? Ho detto attaccalo!»
Il giovane sobbalzò, quindi obbedì e sferrò un fendente dall’alto.
Laio non si mosse e il soldato fu costretto ad arrestare il colpo.
«Chi ti ha detto di fermarti?» Pewar saltò in piedi.
Il soldato era confuso. «Signore, è vostro figlio. Come posso colpirlo?»
«Se non ha il coraggio di battersi non è mio figlio» replicò il generale. «Ricomincia.»
Nihal, dal suo angolo, stringeva i pugni. Non devo intervenire. Laio sa quello che fa e questa è la sua battaglia , si ripeteva, ma sentiva in cuore una furia cieca.
Il soldato riprese l’attacco e colpì Laio di striscio, disegnandogli un taglio rosso sul braccio sinistro.
Laio urlò. Parò di scatto il colpo successivo e iniziò a battersi con foga.
Non era il Laio che conosceva Nihal. I suoi colpi erano precisi e violenti, sembrava un vero soldato.
Le spade si incrociarono a lungo, in un arabesco di parate e attacchi. Nessuno dei due sembrava prevalere. Un paio di fendenti del soldato andarono a segno, ma senza lasciare più che lievi graffi. Anche Laio riuscì a colpire l’avversario un paio di volte, sempre di striscio. La situazione era di assoluto equilibrio.
Dal suo scanno, Pewar osservava soddisfatto. Nel suo sguardo Nihal lesse l’eccitazione della lotta e del sangue, qualcosa che conosceva fin troppo bene e che ora vedeva riflessa negli occhi di quell’uomo spietato. Pewar non ama la battaglia: ama uccidere.
Laio continuava a combattere. I suoi assalti erano sempre più accaniti, i colpi più furiosi. A mano a mano che l’ira gli offuscava la mente, il suo corpo si risvegliava e riportava a galla tutti gli insegnamenti ricevuti all’Accademia. Attaccò più da vicino, cambiando ritmo di continuo, e costrinse il giovane soldato a indietreggiare. Quando lo vide abbastanza in difficoltà, Laio menò un deciso fendente laterale e lo ferì a una gamba. Il ragazzo cadde a terra urlando, mentre un’ampia macchia di sangue imbeveva la terra battuta.
Laio si arrestò all’improvviso e rimase al centro dell’arena, la spada penzoloni in mano. Nello spiazzo risuonò l’applauso del generale.
«Bravo! Bravo!» Pewar si avvicinò al figlio e gli strinse una spalla. «Lo vedi che sai combattere? Lo vedi che sei forte e non lo sai? E ora, uccidilo!»
Il soldato a terra non riusciva a muoversi, la ferita era profonda. Spalancò gli occhi terrorizzato. «Generale...» mormorò.
Laio si sottrasse alla presa del padre e lo guardò, sconvolto. «Che cosa stai dicendo?»
«Che devi finirlo» rispose tranquillo Pewar.
«Ma è a terra! L’ho già sconfitto. Non puoi chiedermi...»
Pewar scosse la testa. «Ti sei mai domandato perché hai tanta paura della battaglia? Eppure sai combattere, l’hai appena dimostrato. Allora?»
Laio non aveva una risposta da dare al padre, non riusciva a pensare a niente. Sentiva solo il respiro affannoso del ragazzo, il rumore delle sue mani che arrancavano nella polvere alla ricerca di una via di fuga.
«Tu hai paura di uccidere, Laio. Ed è una paura normale.» D’un tratto il tono di Pewar si era addolcito, era agghiacciante nella sua pacatezza. «Ma è una paura contro la quale bisogna lottare. Anch’io l’ho provata, ma l’ho scacciata affondando la lama nel petto del primo nemico che ho abbattuto. Così devi fare anche tu. Ammazza questo verme. Solo allora sarai davvero un guerriero. È questo l’unico confine che ti separa dal tuo destino: l’uccisione dell’avversario.»
Laio guardò il ragazzo, il suo volto terreo che gli implorava pietà, il sangue che gli zampillava dalla coscia e si allargava in una pozza. Era stato lui a spargere quel sangue. Lui a infliggere quel dolore.
«No!» urlò, poi gettò la spada a terra, lontano. Quindi spinse via suo padre e gridò ancora: «No!» a voce alta, tonante, tanto forte da farsi male alla gola.
Pewar lo guardò allibito.
«Ammazza me, piuttosto» gridò Laio. Corse a raccogliere la spada e la prese per la lama, ferendosi le dita. La porse al padre. «Se davvero uccidere ti sembra poca cosa, ammazzami. Ma io non diventerò un assassino. Io non sono come te, lo capisci? Io non ucciderò questo soldato, né tornerò a combattere. Io farò lo scudiero, che tu lo voglia o no.»
Laio tacque, il respiro affannato. Il sangue gocciolava lento a terra dalle mani serrate intorno alla lama.
Il generale restò inchiodato al suo posto e Nihal strinse l’elsa della spada, pronta a intervenire.
Il tempo parve fermarsi, poi Laio gettò l’arma a terra. Si diresse a grandi falcate verso il porticato e raggiunse Nihal.
«Andiamo via» disse «riportami alla base.»
Non passò neppure a prendere la sua roba.
Infilò la porta di casa seguito da Nihal e non volle mai più vedere suo padre.
16
Addio al mare.
Potete andare.» Nereo era entrato nella stanza seguito da un nugolo di guardie e da un codazzo di ministri dalle facce tese. I suoi accompagnatori si guardarono perplessi. «Fuori, ho detto!» urlò.
Rimasto solo con Sennar, il re ragazzo si parò davanti a lui, pallido, lo scettro in mano.
Dopo lo scontro con Rodhan, Sennar era stato portato da un mago del posto, ma la sua ferita non si poteva curare con un semplice incantesimo di guarigione.
«È un incantesimo superiore» aveva detto Sennar, con le ultime forze che gli rimanevano. «Un sacerdote dovrebbe essere in grado di...»
Una fitta gli aveva mozzato le parole in bocca. Era come se un fuoco interno gli divorasse le carni. La piaga si estendeva e si irradiava lungo tutta la gamba. Era un sortilegio terribile, frutto della magia proibita. Lo avevano condotto nel palazzo reale, dove il guaritore di corte aveva impiegato una notte intera di preghiere e impacchi per liberarlo dalla maledizione che gli consumava la gamba. Il dolore aveva dato tregua a Sennar solo alle prime luci dell’alba e il mago era finalmente scivolato nel sonno.