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«Questo è per te, dacci un’occhiata» disse con apparente noncuranza.

Nihal toccò l’involucro, incuriosita. Sentì alcune forme strane e qualcosa di duro. Poi lo aprì, ma il sacco era tanto grande che dovette infilarci la testa dentro per capire che cosa contenesse. Quando uscì, scapigliata, sul suo viso era dipinta un’espressione incredula.

«Ora sei un Cavaliere e non mi sembra molto decoroso che te ne vada in battaglia conciata come un mendicante» borbottò lo gnomo, quasi imbarazzato. Era la prima volta che faceva un regalo.

Nihal iniziò a svuotare il sacco: c’erano una corazza splendente, un paio di spallacci, un elmo e due gambali. Erano tutti di cristallo, nero come la notte e lucente di terribili bagliori. Come la sua spada. La corazza era levigata a regola d’arte e dalla parte bassa della vita partiva un fregio: rappresentava un drago ritorto su se stesso, che con mille volute si arrampicava su per il busto fino all’altezza del petto, dove troneggiava la testa; la bocca spalancata sputava due fiotti di fiamme che si avvolgevano intorno al profilo dei seni. Gli spallacci erano foggiati come due teschi di drago, i denti aguzzi sprofondati nella linea delle spalle. Sui gambali tornava il motivo delle fiamme. Infine, l’elmo aveva due grossi spuntoni che partivano dai lati del capo.

Nihal la guardò senza parole. Era la sua armatura.

«L’elmo l’ho fatto fare in modo che non ti dia fastidio sulle orecchie. È leggera, sai, non dovrebbe impacciarti nei movimenti» spiegò Ido, ma Nihal continuava a tacere. «Di sicuro tuo padre avrebbe fatto qualcosa di più bello e grandioso, ma spero che ti piaccia e che ti ci trovi bene a combattere e... oh, al diavolo!» imprecò alla fine.

Nihal gli saltò al collo e lo abbracciò stretto. Era più di quanto potesse sperare, era un regalo meraviglioso, era la prova della stima che Ido nutriva per lei. Le vennero le lacrime agli occhi. «Grazie, grazie...» continuava a ripetere.

Ido la allontanò. Aveva gli occhi un po’ lucidi. «Se speri di farmi piangere come una femminuccia ti sbagli di grosso, sappilo» brontolò, poi scoppiò a ridere e Nihal rise con lui.

«Io... è tutto bellissimo, Ido. Tu mi hai salvata, mi hai cresciuta, hai fatto di me un guerriero... io...» Nihal non trovava le parole per ringraziare lo gnomo che l’aveva riportata alla vita.

Ido rispose dandole una sonora pacca sulla schiena. «Su, bando ai sentimentalismi, va’ a prendere quel buono a nulla di Laio e diamoci una mossa» disse. Il sorriso che fino a poco prima troneggiava sulle sue labbra scomparve non appena sentì Nihal gemere. «Che cosa hai combinato?» chiese. Sbuffò dalla pipa una serie di nuvolette di fumo compatte e ravvicinate, come accadeva sempre quando si arrabbiava.

Con gli occhi di Ido puntati addosso, Nihal arretrò fino a trovarsi con le spalle al muro. Accidenti. E adesso? Non le restava che confessare. «Ho fatto il tatuaggio...» disse con un filo di voce.

Sbuffo di fumo. «E che razza di tatuaggio ti sei fatta?» Sbuffo di fumo.

«Due ali... sulla schiena...»

Sbuffo di fumo. Silenzio.

«Non sono tanto grandi... E poi hanno un significato...»

Sbuffo di fumo. «Non ti faccio una scenata solo perché...» sbuffo di fumo «solo perché siamo in ritardo. Altrimenti mi avresti sentito, eccome! E ora sparisci, prima che cambi idea.»

Nihal schizzò fuori dalla capanna con un mezzo sorriso sulle labbra.

Partirono dopo pranzo. Ido su Vesa e Laio dietro a Nihal su Oarf.

Nihal adorava volare. Quando saliva sul suo drago e vedeva tutto dall’alto si stupiva come se fosse la prima volta. Cavalcava Oarf senza finimenti e, che lei sapesse, era l’unica tra i Cavalieri di Drago a farlo. Laio era costretto ad aggrapparsi a lei con tutte le forze per non cadere. Nihal non voleva dominare il suo drago, lei e Oarf erano una sola cosa. Tra loro non c’era bisogno di ordini, perché il pensiero dell’uno era quello dell’altra.

Giunsero a Makrat verso sera. La città si presentò ai loro occhi nella confusione e nell’afa estiva. Nonostante l’ora, le vie e le piazze erano affollate ed echeggiavano di voci, sussurri, risa e frastuono. Quando passarono davanti all’enorme portone dell’Accademia, Nihal non poté fare a meno di pensare a Sennar. Che stupida era stata. Il giorno del loro ultimo incontro avrebbe voluto dirgli quanto fosse importante per lei, abbracciarlo e tenerlo stretto perché non andasse via. Invece lo aveva ferito, con la spada e con le parole. E ora forse era morto. Scacciò quel pensiero. Sennar era vivo e sarebbe tornato.

Cenarono all’Accademia, insieme ai cadetti. A Nihal fece uno strano effetto rientrare nel vasto refettorio.

«Ti ricordi quando mangiavamo qui anche noi?» le chiese Laio tra un boccone e l’altro. Poi iniziò a raccontare a Ido come aveva conosciuto Nihal.

Ma lei non aveva voglia di rievocare i tempi andati. Non erano stati bei mesi quelli passati lì dentro. In fondo era trascorso così poco tempo. Ricordava bene le sensazioni che aveva provato tra quelle mura: l’isolamento, la solitudine, l’odio, l’impressione di essere diversa. Anche adesso tutti la guardavano, allievi e maestri, e Raven dal suo scanno non le toglieva gli occhi di dosso. Lei sapeva perché: era una donna, era un mezzelfo. Le sembrò che non fosse cambiato niente.

Sorbì la sua minestra in silenzio, mentre Laio la riempiva di chiacchiere e Ido la osservava senza fiatare.

Quando fu ora di ritirarsi ciascuno nelle proprie stanze, lo gnomo la fermò. «So come ti senti, Nihal. Ma non devi avere paura. Ti meriti quello che riceverai domani.»

«Sì, certo» annuì lei poco convinta. «Fa caldo, vado a fare una passeggiata» tagliò corto, quindi si allontanò in fretta. Desiderava stare sola.

Il giorno dopo, il salone le parve ancora più immenso di quanto lo ricordasse. E pieno, strapieno, traboccante di gente. Si sentì mancare l’aria. Erano tutti lì per lei. Aveva cominciato a sentire una strana oppressione al petto già mentre si preparava. Laio aveva insistito per vestirla personalmente. Era stato un piacere guardarlo mentre le allacciava le fibbie, le aggiustava la corazza, le fissava i gambali.

«Sei diventato uno scudiero provetto» aveva osservato Nihal.

«Non dirlo troppo in giro» aveva scherzato lui. «Qualche cavaliere potrebbe sentirti e cercare di accaparrarsi i miei servigi.»

Nihal aveva riso.

«Finito!» aveva esclamato Laio dopo un ultimo strattone. «Ora puoi guardarti, Cavaliere.»

Nihal si era voltata verso il grande specchio che ornava la sala che le era stata assegnata per quella mattina e quasi non si era riconosciuta: sulla lamina d’argento scintillava la figura di un guerriero, un vero guerriero, imponente e minaccioso.

«D’ora in poi sarà così che ti vedrà il nemico: un demone nero sul campo di battaglia» aveva detto Laio con un sorriso. «Adesso però non c’è tempo per la vanità, Cavaliere. È ora di andare.»

Mentre percorreva al fianco di Laio i corridoi dell’Accademia, la sensazione di disagio era cresciuta. E quando si era trovata davanti l’infinito susseguirsi di volte del salone principale, era giunta al culmine.

Nihal chiuse gli occhi per calmarsi e immaginò che Sennar fosse lì, in mezzo alla folla. Ce l’ho fatta, Sennar. Guardami. Ce l’ho fatta.

Poi sentì squillare le trombe e Raven e Sulana, la regina bambina che governava ispirata dal ricordo del padre, fecero il loro ingresso.

Il Supremo Generale era impettito come al solito. Aveva cambiato armatura dall’ultima volta che Nihal aveva avuto il discutibile piacere di vederlo; quella che indossava ora sfavillava d’argento e pietre preziose ed era assurdamente ricoperta di fregi. Raven aveva la faccia tronfia e sprezzante che Nihal aveva detestato fin dalla prima volta che l’aveva visto. Il suo inseparabile cagnolino lo seguiva scodinzolante ed eccitato a qualche passo di distanza.

Al braccio di Raven avanzava Sulana, bella come una ninfa, eterea e compresa nel suo ruolo. Camminava solenne, senza guardare la folla, e aveva un’espressione matura e insolita per la grazia e la giovinezza dei suoi lineamenti.