«Me la ricordo bene, Salazar. Bruciava che era una meraviglia...» bisbigliò lo gnomo. «Uccidimi pure, giovane mezzelfo. Ma non illuderti: non servirà a fermare il Tiranno. Non ti basterebbero mille vite per ucciderci tutti.»
“Uccidilo! Uccidilo!” ripetevano le voci.
Ma Nihal esitava.
Basta così poco. Devo solo premere la lama sulla sua gola e poi sarò felice, avrò fatto ciò che devo.
Aveva promesso, non poteva.
Quanti uomini ho finito con un colpo di spada? Quanti fammin ho trucidato? Quante agonie sono passate sulla mia lama? Cosa può significare una morte in più?
La mano che stringeva l’elsa era sudata, la fronte gelida.
Nihal ricordò le parole di Megisto: “Vuoi vederlo implorare pietà. E quando sarà ferito ai tuoi piedi, vuoi tagliargli la gola e guardare il suo sangue inzuppare il terreno. E quando sarà morto riderai e sentirai che la tua vendetta è compiuta”.
No! No! No!
Fece un passo indietro sulle gambe malferme. Rinfoderò la spada. «Saranno altri a decidere la tua sorte, maledetto» disse con un filo di voce.
Dola la guardò tra le palpebre socchiuse. «Stai commettendo un grosso errore, mezzelfo, un grosso errore...» Le sue parole si spensero lentamente, mentre gli si chiudevano gli occhi.
22
Il segreto di Ido.
La scelta di tenere impegnato Dola e dare alle truppe il tempo di attaccare si dimostrò vincente. Lo scontro era stato duro, ma la battaglia si era conclusa con la vittoria dell’esercito delle Terre libere. All’alba, l’accampamento del bosco di Herzli era stato riconquistato.
Mentre a terra infuriavano i combattimenti, Laio aveva assistito al duello tra Nihal e Dola dal colle. Aveva guardato Oarf e l’immenso drago nero agitarsi nel cielo notturno, aveva sentito le grida di Nihal. Aveva chiuso gli occhi a ogni ferita ricevuta dall’amica ed esultato quando la sua spada si era conficcata nell’impenetrabile armatura dello gnomo. Poi aveva visto Nihal precipitare insieme a Dola e ai due draghi ed era corso col cuore in gola dal generale.
Quando la squadra di ricognizione riportò indietro Nihal, coperta di sangue e incosciente, sul campo calò un silenzio attonito. A breve distanza quattro soldati trascinavano Dola, incatenato e ferito.
Il mago dell’accampamento rimase accanto a Nihal per tutto il giorno e solo la sera successiva si azzardò a dire che forse il peggio era passato.
Nihal non avrebbe serbato alcun ricordo del tempo trascorso sulla branda dell’infermeria. Nemmeno i sogni vennero a darle l’impressione di essere viva. Era proprio come la morte: buio e nulla, ovunque.
Alla notizia che Nihal era gravemente ferita, Ido spronò Vesa a volare più veloce del vento. Lui e Laio si diedero il cambio al suo capezzale, la vegliarono notte e giorno, attesero con fiducia il momento in cui avrebbe aperto gli occhi.
«Continua a chiamarti, Ido.»
«Lo so.»
«Ma è vero? Voglio dire, è vero che lui...»
«Sta’ zitto, Laio. Zitto.»
Nihal dischiuse lentamente le palpebre e dal buio emersero due figure indistinte.
Si sentì chiamare. «Nihal! Nihal, sei sveglia?» Laio... Aprì e chiuse gli occhi e i volti chini su di lei si fecero riconoscibili. Laio aveva i capelli arruffati e l’aria stanca. Ido sorrideva. Nihal cercò di rispondere a quel sorriso, ma non fu certa di esserci riuscita.
«Sono orgoglioso di te» mormorò Ido.
All’improvviso Nihal ricordò ogni cosa.
Sì, anche lei era orgogliosa di se stessa.
Per tutto il periodo in cui restò in infermeria, Nihal ricevette un’infinità di visite. Fra i primi ad arrivare vi fu il generale, che si impegnò a farle avere un riconoscimento ufficiale per la sua impresa. Poi iniziò la processione dei soldati e Nihal fu costretta a raccontare fino alla nausea come aveva sconfitto il più temibile guerriero del Tiranno. Non che non fosse lusingata da tutte quelle attenzioni, ma il ruolo di eroina del giorno la metteva a disagio.
Ido invece si faceva vedere di rado e quando andava a trovarla restava sempre poco. Nihal in parte ne era sollevata. Non poteva dimenticare con quale arma aveva battuto Dola, né con quali motivazioni. Certo, non lo aveva ucciso. Aveva tenuto fede al giuramento fatto a Megisto. Aveva raggiunto il suo obiettivo. Ma ora?
Dopo dieci giorni di convalescenza poté muovere i primi passi con le stampelle. Uscì dalla tenda e fece un giro dell’accampamento.
Il sole estivo era caldo e le accarezzava la pelle. Nihal si sentì quasi a casa. Le sembrava di riconoscere quel sole: era lo stesso che l’aveva vista crescere spavalda tra le mura di Salazar.
Per prima cosa volle andare da Oarf. Non appena lo vide, accucciato su un prato ai margini dell’accampamento, con la ferita all’ala non ancora cicatrizzata, le si strinse il cuore.
Gli si avvicinò zoppicando. «Ce l’abbiamo fatta, amico mio, ce l’abbiamo fatta» disse. Gli accarezzò il muso e il drago le leccò la mano.
Più tardi, mentre mangiava nella mensa del campo, Nihal ebbe modo di cogliere uno strano discorso tra un paio di fanti seduti alle sue spalle.
«E ancora insiste?»
«Altroché, se insiste! E pensa che noi non ne sapevamo niente!»
«A me sembra impossibile. Insomma, stiamo parlando di Dola! Se fosse vero ci sarebbe di che preoccuparsi...»
«Chi può saperlo? Resta il fatto che Ido non ha detto una parola sull’argomento.
Ora, se qualcuno mi accusasse di essere stato in combutta col nemico, io mi farei in quattro per smentire...»
Nihal si voltò di scatto. «Di cosa state parlando?» chiese con voce tesa.
«Niente d’importante...» rispose uno dei due fanti, imbarazzato.
«Voglio sapere di cosa state parlando!» ripeté Nihal.
«Parlavamo di Dola» intervenne l’altro. «Da quando è qui, non fa altro che chiedere di Ido. Vuole parlare con lui.»
Nihal sentì il sangue salirle al viso. «Perché?»
«Dice che si conoscono da tanto tempo... che hanno combattuto fianco a fianco» continuò il fante.
«È una menzogna!» urlò Nihal. Una fitta al costato le tolse il respiro, ma non le impedì di agguantare le stampelle e alzarsi in piedi. «Dov’è quel verme?»
«Nella zona occidentale del campo, dove teniamo i prigionieri. Ma il generale ha dato ordine che...»
Le parole del soldato si persero nel nulla. Nihal se n’era già andata, saltellando sulle grucce.
Quando entrò nella sua tenda, Laio era intento a lucidarle la spada.
«Allora, come te la sei cavata con quei trabiccoli?» chiese il ragazzo con un sorriso, che però gli svanì dalle labbra di fronte allo sguardo di Nihal. «Che cosa succede?»
Nihal non rispose. Gli tolse l’arma dalle mani e uscì.
Laio si affacciò fuori dalla tenda. «Nihal, aspetta!» La guardò allontanarsi, poi scosse la testa e rientrò, rassegnato.
«Fammi entrare» ordinò Nihal alla guardia. Era pallida e sudata. Dalla fasciatura che le stringeva il torace affiorava una macchia rossa.
«Veramente ho avuto disposizioni di...»
«Fammi entrare» ripeté lei.
«Va bene, ma io non voglio saperne niente» borbottò il soldato. Scrollò le spalle e le aprì la porta del gabbione di legno che fungeva da cella.
Quando Nihal entrò, fu investita da un odore di muffa e di stantio. La cella era buia e le sottili lame di sole che filtravano tra un’asse e l’altra illuminavano a malapena l’ambiente. La ragazza avanzò di pochi passi, inciampò, cadde in avanti.
Tra le pareti di legno echeggiò una risata. Lentamente, dal buio emerse la figura di uno gnomo tanto muscoloso da parere innaturale. Aveva mani e piedi costretti da pesanti catene, il corpo era ricoperto di ferite, ma non sembrava sofferente. I suoi occhi da furetto guardavano Nihal con disprezzo.
«Non ti reggi nemmeno in piedi, mezzelfo?»
Nihal puntò la spada innanzi a sé, furente. «Taci! Io non mi reggerò in piedi, ma dei due, sei tu quello in catene!»