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«Che ferocia» ridacchiò Dola. «Forse il Tiranno non ha tutti i torti a temerti.»

«Il Tiranno non sa chi sono» rispose Nihal.

«Non sa chi sei, ma ti teme ugualmente. Per questo ti sta cercando» sussurrò lo gnomo. «Quanto credi che potrai ancora nasconderti, prima che ti trovi?

Non ti servirà a niente avermi battuto, perché tra breve l’inferno vi sommergerà tutti. E tu andrai a fare compagnia ai tuoi antenati. Siete finiti, mezzelfo.»

Nihal si avvicinò a Dola fino a sfiorargli il petto con la lama. «Cosa vai dicendo del mio maestro?»

«Il tuo maestro?» disse Dola incredulo. «E così è stato Ido a insegnarti... Mi meraviglio, non è mai stato un gran guerriero.»

Nihal fu sopraffatta dalla rabbia. «Come ti permetti di infangare l’onore di Ido, verme?»

Dola rise di gusto. «Onore? Quale onore? Ido è un traditore! Ha combattuto al soldo del Tiranno per anni. Era con il Tiranno durante la strage dei mezzelfi.»

«Che cosa stai dicendo?» urlò Nihal.

«Il tuo maestro ha partecipato allo sterminio della tua gente, mezzelfo. Fattelo raccontare, quando ti capita.»

«Taci! Taci!» gridò Nihal.

Aveva appena alzato la spada, quando la porta si spalancò e la gattabuia fu inondata di luce. Nihal si sentì afferrare il polso. L’arma le scivolò di mano e cadde a terra con fragore.

«Nessuno ti ha autorizzata a venire qui» disse il generale. Alle sue spalle apparvero quattro soldati.

Nihal si accorse che il cuore le batteva all’impazzata. Le gambe non la reggevano. Ebbe un capogiro. Appoggiò la schiena a una parete della cella e scivolò fino a sedersi a terra.

Il generale fece un cenno col capo a uno dei soldati. «Manda a chiamare il suo scudiero.»

Laio arrivò di corsa e la portò fuori, lontana dalla gattabuia. La fece sdraiare sull’erba, all’ombra di un albero.

Nihal non ebbe la forza di opporre resistenza. «È falso» continuava a ripetere mentre le si annebbiava la vista. «Quel che dice è falso...»

Poi abbassò le palpebre. Quando le riaprì, Ido era in piedi accanto a lei e la guardava in silenzio.

«Dimmi che non è vero, dillo a tutti...» mormorò Nihal.

«Dobbiamo parlare, Nihal» rispose lo gnomo.

23

Ido della Terra del Fuoco.

Seduta sulla brandina nella tenda di Ido, Nihal guardava il suo maestro con aria spaesata. Le sembrava che il mondo le si sgretolasse sotto i piedi.

«Perché non l’hai smentito, Ido? Perché non hai detto a tutti che raccontava solo menzogne?» chiese con un filo di voce.

Ido le si sedette accanto e si passò le mani sul viso. Fissò a lungo il pavimento. Sembrava cercasse in terra il coraggio e le parole. Alla fine alzò gli occhi e la guardò in faccia. «Quello che ha detto Dola è vero.»

Niente. Bianco. Nihal non provò nulla. Che cosa doveva provare? Non trovava emozioni con cui esprimere lo stupore, la rabbia, il dolore. Bianco.

«Io vengo dalla Terra del Fuoco, Nihal, ma questo lo sai. Ciò che non sai è che sono l’erede al trono di quella Terra.»

Ido fece un respiro profondo, le si sedette accanto e cominciò a raccontare.

Quando la guerra dei Duecento Anni finì e Nammen, il re dei mezzelfi, prese il potere su tutto il Mondo Emerso, sulla Terra del Fuoco regnava Daeb, un re né migliore né peggiore di tanti altri.

Le volontà del nuovo sovrano sovvertirono l’ordinamento politico ottenuto con anni di battaglie: Nammen decise che le Terre da lui conquistate fossero restituite ai legittimi popoli, destituì tutti i regnanti e stabilì che ogni Terra eleggesse il proprio re.

Alcune Terre vollero mantenere i propri monarchi, altre ne scelsero di nuovi. Nella Terra del Fuoco, tuttavia, il popolo degli gnomi non ebbe la possibilità di eleggere nessuno. La decisione di Nammen scatenò una guerra intestina tra le famiglie nobili, che portò all’assassinio di Daeb e all’esilio forzato del suo primogenito Moli.

Moli era giovane, ma giurò che non avrebbe mai dimenticato quel che era accaduto e che prima o poi si sarebbe ripreso ciò che gli spettava.

Si stabilì nella Terra delle Rocce e sposò Nar, una ragazza del posto, gnomo anche lei, da cui ebbe due figli: Ido e Dola.

Moli amava i suoi figli, ma la sola cosa che davvero contasse per lui era la vendetta. Aveva un solo pensiero: riprendersi la corona e vendicare il padre.

Ido e Dola impararono a maneggiare la spada fin da piccoli. Quando non era in viaggio per il Mondo Emerso in cerca di alleanze, Moli li addestrava personalmente.

Ido era solo un bambino, ma era bravo con le armi. Il padre gli ripeteva di continuo che sarebbe diventato re. Gli diceva di odiare chi aveva tolto loro il trono e lui odiava. Gli diceva che avrebbe dovuto uccidere il nemico e lui annuiva convinto. Lo mandò all’Accademia dei Cavalieri di Drago che era appena un ragazzino: fu lì che conobbe Vesa, fu lì che imparò tutto.

Dola era diverso; era gracile, non era portato per il combattimento, si ammalava facilmente. E poi era il figlio minore: non doveva ereditare il trono, bastava che al momento giusto fosse capace di lottare. Moli lo tormentava, lo costringeva ad allenarsi sotto la pioggia battente, cercava in tutti i modi di farne un guerriero. Dola si impegnava come può impegnarsi un bambino che vuole compiacere il padre: si allenava da solo, metteva l’anima in quel che faceva, ingoiava insulti e angherie.

Fu subito dopo la nomina di Ido a Cavaliere che avvenne la svolta.

Moli si mise in contatto con un giovane mago molto ambizioso che gli assicurò il suo appoggio per riconquistare il trono usurpato a Daeb. Prese a recarsi sempre più spesso nella Grande Terra e quando tornava da quei viaggi sembrava soddisfatto.

Un giorno dovette partire per la Terra della Notte e volle che Ido e Dola lo accompagnassero. Raggiunsero un luogo sperduto, una sorta di palazzo incuneato tra le montagne, impossibile da trovare per chi non ne conoscesse l’ubicazione.

Là Ido e Dola conobbero per la prima volta l’uomo in cui loro padre credeva ciecamente. O meglio conobbero la sua voce, perché l’uomo si celava dietro un pesante tendaggio nero. Una voce indecifrabile, senza età, non umana.

«Questi sono i miei figli, signore» disse Moli, in un tono servile che colpì Ido.

«Qual è il maggiore?» chiese la voce.

Moli spinse avanti Ido. «È lui, mio Signore.»

“Mio signore”, così disse Moli. Ido non capiva: suo padre era un re e lui un principe, nessuno poteva essere il loro signore. Era a disagio. Non poteva vedere quell’uomo, eppure sentiva il suo sguardo su di sé.

L’uomo dietro la tenda gli chiese se rivoleva il suo trono.

Ido rispose che sì, certo che lo voleva.

L’uomo non disse altro.

Poi fu la volta di Dola. Con lui parlò a lungo e a Ido sembrò che lo avesse preso in simpatia.

Due mesi dopo quell’incontro, Moli disse ai figli che dovevano tornare nella Terra della Notte e pianificare l’attacco alla Terra del Fuoco. Ad attenderli avrebbero trovato un esercito.

Ido e Dola rientrarono nel palazzo dell’uomo senza volto. L’esercito c’era, grande e numeroso, e Ido sentì il sangue scorrere veloce nelle vene: il grande giorno era arrivato! Finalmente, dopo anni di soprusi e di esilio, si sarebbero ripresi ciò che era loro.

C’era molta altra gente dall’uomo velato, gente che Ido non conosceva. Fu quello il giorno in cui il Tiranno ascese al potere e Ido era lì. Non gli interessava sapere che cosa quell’uomo stesse tramando, né perché. Voleva solo la sua corona, e per quella lottò.

Fu la sua prima guerra. La campagna durò tre mesi, fu lunga e faticosa, fu ferito più di una volta e rischiò la vita, ma niente sembrava fermarlo. Combatteva per la sua famiglia, per la sua corona. Quel sogno lo accecava. Dola invece combatté solo all’inizio, poi prese a trascorrere periodi sempre più lunghi nel palazzo dell’uomo velato. Il Tiranno, come si faceva chiamare ora.

Ido giunse in vista di Assa, la capitale della Terra del Fuoco, un giorno di luglio. Aveva attraversato un paese in rovina e la popolazione lo aveva salutato come un salvatore. Era poco più di un ragazzo e tutte quelle braccia tese, la gratitudine della gente, la vittoria gli diedero alla testa. Si sentì un eroe e con quella convinzione raggiunse il palazzo reale, che le truppe comandate da Moli avevano già messo a ferro e fuoco.