Il re usurpatore e tutti i suoi familiari erano stati riuniti nella sala del trono. Il sovrano implorò di avere salva la vita.
Moli ascoltò in silenzio, sorridendo. Poi guardò Ido e gli porse la spada. «A te l’onore» disse.
Ido si avvicinò e lo trafisse senza pietà. Aveva già ucciso, ma sempre in battaglia. Gli piacque togliere la vita a quell’uomo che non conosceva. Gli piacque vedere la disperazione della sua famiglia. Quel giorno diventò un assassino.
I mesi successivi furono dedicati alla vendetta. Moli fece uccidere o imprigionare tutti coloro che avevano appoggiato il vecchio re e inaugurò col sangue la nuova era. Ido invece si dedicò ai piaceri della vita. Divenne uno sfaccendato. Passava le giornate a corte e le notti a fare baldoria tra donne e birra, si disinteressava di quello che accadeva fuori dai confini della sua Terra. Non aveva altro scopo nella vita che godersi quella corona che suo padre gli aveva promesso da sempre. Finché un giorno Moli non lo convocò.
«Il Tiranno vuole che tu vada da lui» disse in tono grave.
«E perché?» sbuffò Ido. «Non ci penso neppure!»
«Ti ricordo che abbiamo un debito con lui, Ido. Tuo fratello lo ha già raggiunto nella Grande Terra. Partirai stasera stessa» ordinò Moli e con questo chiuse la discussione.
Nella Grande Terra Ido trovò enormi cambiamenti: dove un tempo sorgeva il palazzo del Consiglio era in via di costruzione un’immensa torre di cristallo nero. Il Tiranno stava edificando la sua Rocca. Per il momento non era che una massiccia base ottagonale alta non più di quattro piani, ma era maestosa e impressionante. Le pareti mandavano bagliori funebri, le finestre erano alte ogive spalancate come orbite in un cranio. Ai lati della torre centinaia di schiavi lavoravano giorno e notte ad altri otto edifici minori: i tentacoli che in futuro avrebbero insidiato ciascuna delle Terre libere.
Fu Dola ad accogliere il fratello e ad accompagnarlo nel salone delle udienze. Ido quasi non lo riconobbe: non era più il ragazzo gracile e fragile che conosceva. Sembrava cresciuto, aveva un’aria spavalda ed era vestito da guerriero.
Il Tiranno si celava, come sempre, dietro una pesante cortina nera. La sua voce risuonava nel salone come se provenisse dall’aldilà.
«È ora che tuo padre estingua il suo debito. D’ora in poi tu e tuo fratello combatterete per me» disse il Tiranno.
Ido tentò di protestare, ma il Tiranno lo interruppe bruscamente: «Questa è la mia decisione. Ed è anche quella di tuo padre, perché il mio volere e il suo sono tutt’uno, Ido. Ricordatelo». Fu così che Ido entrò nell’esercito del Tiranno. Ebbe un’armatura e una spada sulla cui elsa era inciso il giuramento di fedeltà al Tiranno. All’inizio non aveva molti uomini sotto di sé, perché il Tiranno non disponeva ancora di un esercito vero e proprio: erano i vecchi re destituiti da Nammen a fornirgli uomini e armi.
Ido fu distaccato sul fronte della Terra della Notte. Là imparò davvero il mestiere delle armi. Il Tiranno fece di lui un guerriero. Più passava il tempo, più la guerra gli entrava nell’anima. Amava il combattimento fine a se stesso, amava l’odore del sangue che ritrovava la sera sulla pelle, amava il terrore che incuteva nei nemici.
Il Tiranno diede uno scopo alla sua vita: uccidere. Più uccideva, più era temuto e più era temuto, più si sentiva forte. Quando scendeva sul campo di battaglia, la sua spada non si fermava finché non erano tutti a terra. Non aveva paura del dolore, non aveva paura della morte. Se non combatteva, non si sentiva vivo.
Tornava ad Assa di rado. La vita di palazzo che aveva amato tanto ora gli dava la nausea. Il padre non gli sembrava più lo stesso. Era invecchiato e ai suoi occhi era diventato un piccolo uomo meschino, in ansia per la sorte dei suoi figli e del suo regno, sul quale aveva sempre meno potere. Quando lo andava a trovare, Moli non faceva che piagnucolare, si lamentava delle tasse che doveva al Tiranno, degli uomini che il suo esercito gli strappava. Gli ripeteva che sentiva il fiato del Tiranno sul collo, lo supplicava di non lasciargli prendere la loro Terra.
Invece vedeva spesso Dola e ogni volta non si capacitava che fosse lui. Iniziava a farsi un nome come guerriero e aveva parecchie truppe sotto di sé. I suoi soldati lo temevano e lo rispettavano, e presto la sua fama fu maggiore di quella del fratello.
Ido iniziò a esserne geloso.
Poi il Tiranno lo convocò e gli disse che aveva un regalo per lui. Fu allora che lo mise a capo di una truppa di fammin. Da quel giorno, per dieci anni, Ido non fece altro che combattere.
Il Tiranno aveva fatto dono a Dola di un drago nero, un animale spaventoso che sembrava uscito dalle viscere della terra. In groppa a quella bestia, l’ascesa di Dola come guerriero sembrava giunta al culmine. Più di una volta Ido aveva guardato il drago nero con invidia. Vesa non reggeva il confronto.
«Voglio metterti alla prova, Ido» disse il Tiranno. «Se porterai a termine la prossima missione, avrai anche tu un drago nero e nuove truppe sotto il tuo comando. Soddisfami e ti renderò potente.»
La Terra della Notte era stata conquistata da più di un anno, ma lungo i confini erano ancora insediati numerosi gruppi di ribelli. Ido ricevette un contingente di duecento fammin e un solo ordine: sterminare.
La cittadella gli apparve da lontano, immersa nel buio perenne della Terra della Notte. Era piccola, una trentina di casupole di legno protette da un robusto steccato e neppure una sentinella a presidiarne l’ingresso.
Ido si aspettava che i ribelli stessero all’erta, ma non si fece domande. Anzi, si rallegrò: aveva dalla sua la sorpresa. Lanciò i fammin all’attacco e si alzò in volo con Vesa per tempestare di fuoco le capanne.
Ci mise un po’ a capire. I fammin non incontravano resistenza. Le uniche urla che sentiva erano di donne e bambini. Il Tiranno lo aveva mandato a sterminare un villaggio di mezzelfi. Si erano stabiliti lì dopo essere fuggiti dalla Terra dei Giorni. All’epoca erano già in pochi.
Ido aveva combattuto molto in quei dieci anni. Aveva ucciso senza scrupoli, aveva passato a fil di spada chi implorava pietà. Non aveva alcuna morale, non gli interessavano il bene e il male, degli altri non gli importava niente.
Ma quella volta, quando vide le sue truppe infierire su chi fuggiva, finire i feriti a morsi, gettarsi sui cadaveri, qualcosa in lui si ribellò. Quei nemici non erano soldati: era gente disarmata, che chiedeva solo di vivere in pace.
Planò con Vesa sulla mischia e ordinò la ritirata, ma i fammin non gli obbedirono. Gridò ancora, sempre più forte, senza risultato. Allora si lanciò sui suoi soldati, li finì uno dopo l’altro con la spada, ma fu tutto inutile. I fammin gli si rivoltarono contro e lo ferirono gravemente. Riuscì a salvarsi solo grazie a Vesa. Si mise al riparo in cima a un picco e assistette alla strage dall’alto.
Quando fu tutto finito scese a terra, smontò da Vesa e attraversò il villaggio a piedi. Si sentiva sul punto di impazzire. Era troppo. Era troppo anche per lui. Non voleva più combattere per quell’uomo, mai più.
Decise di tornare ad Assa. Fu costretto a battere strade poco percorse. Era ferito, ma soprattutto era un traditore. Ido non sapeva perché stesse andando da suo padre, non sapeva che cosa lo tenesse ancora in piedi, non sapeva più nulla. Fu un viaggio terribile. Poi raggiunse la Terra del Fuoco e la realtà gli si presentò in tutta la sua crudezza. La popolazione era tenuta in schiavitù, nei villaggi si respirava la disperazione. Le donne erano sole a occuparsi della terra, i bambini erano magri e laceri, gli uomini lavoravano nelle fucine nei pressi dei vulcani del regno per produrre armi.