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Tirarono fuori le maschere di gomma (facce da vagabondi tristi, più o meno) e le infilarono. Immediatamente, a contatto della gomma, la pelle di Cole cominciò a sudare, a prudere.

Sotto quel viso irreale, la realtà era claustrofobica e appiccicosa.

Cole estrasse la pistola. La porta dell’ascensore si spalancò.

TR-RRRE!

Sulla moquette c’era un uomo. Era morto, perdeva sangue. E, chino su di lui, c’era un altro uomo che stringeva una pistola fumante. Tutti e due indossavano un’uniforme. L’uomo in piedi stava piangendo. — Ehi, non è come sembra, amico! — disse, girandosi verso l’ascensore. — La pistola ha sparato da sola… — Poi vide le loro maschere.

Alzò l’arma e fece fuoco.

Cole e Catz si erano già appiattiti contro un lato dell’ascensore. Cole era paralizzato dall’indecisione: rispondere al fuoco? Chiudere la porta dell’ascensore? Arrendersi?

Ma Catz sparò un colpo, e la guardia si piegò in due, con un proiettile nello stomaco. Restò a contorcersi sulla moquette, ai loro piedi, invocando il nome di chissà chi.

“Cristo, Cristo” pensò Cole. “In tivù muoiono subito.”

L’uomo era riverso sullo stomaco, gemeva come un bambino preso a schiaffi, cercava di fermare con le mani il fiume di sangue che gli usciva dalla pancia. Era pallidissimo. Accanto a lui, come per dimostrargli comprensione, il berretto che gli era caduto di testa dondolava leggermente.

Cole alzò la pistola, uggiolò sottovoce, sparò alla testa dell’uomo. Ancora. Ancora. Due proiettili mancarono il bersaglio. Uno colpì la guardia alla spalla destra.

Catz abbassò la pistola di Cole e chiese: — Cosa stai facendo?

— Cercavo di… di non farlo troppo… — cominciò Cole, esitante.

— Non volevo colpirlo allo stomaco. Ho mirato alle gambe. Potrebbe anche cavarsela. Lasciagli una possibilità.

— Pensi che sia stato… uh… Città a… far sparare la pistola della guardia?

Catz non ebbe il tempo di rispondere. Vennero attaccati su due fronti. Davanti a loro, due uomini robusti, quasi calvi, in completo nero, puntarono due .45. Erano usciti dalla sala d’attesa annessa alla sala riunioni. Stavano già premendo il grilletto, ma le armi non spararono. I due si chinarono a guardare le pistole, stupefatti. Da destra arrivò, scivolando lungo il corridoio, un autoguardiano, uno di quei robot dal cervello non troppo complicato apparsi sul mercato nel 1979 e che servivano da guardiani notturni per magazzini e supermercati. — Fermi lì dove siete e non muovetevi per nessun motivo — disse la voce, materna e imperiosa, che uscì dalla testa globulare, cromata, del robot. Le sue braccia, simili al tubo di un aspirapolvere, terminavano in due paia di pinze con gli angoli smussati. Le braccia si spalancarono, circondarono i due uomini, sempre più perplessi. Il robot ripeté la litania declass="underline"  — Fermi lì dove siete… — il che scatenò le proteste del gorilla più alto. — Ehi, che cazzo credi di fare, idiota, non sai che dovresti… — Venne interrotto quando gli sforzi frenetici del suo collega per liberarsi dal robot misero in azione, sulla testa dell’autoguardiano, un lampeggiatore stroboscopico. A distanza così ravvicinata, il lampo di luce accecò momentaneamente i due uomini.

Cole e Catz strizzarono gli occhi per allontanare le macchie di colore che danzavano sulle loro retine.

I due uomini prigionieri dell’autoguardiano continuarono a lottare, a cercare di liberarsi, bestemmiando e scuotendo la testa, come se bastasse quello a far scomparire la cecità. Una lampadina rossa cominciò ad accendersi e spegnersi sul petto cilindrico del robot, e i due gorilla si misero a sussultare: il computer stava trasmettendo loro piccole scariche elettriche. Poi i due precipitarono a terra, esausti e confusi. Uno cominciò a piangere. Da un foro che si apriva nel punto di congiunzione tra la testa e il petto della macchina uscì del gas. I due gorilla, ridendo come bambini isterici per aver respirato gas esilarante, si lasciarono trascinare via lungo il corridoio…

Di fronte a loro, oltre la porta spalancata della sala d’aspetto, Cole vide che veniva aperta la porta della sala riunioni. — Che cavolo succede? — urlò qualcuno, per il momento ancora invisibile. — Guardate che qui stiamo cercando di…

Cole avrebbe voluto girare sui tacchi e scappare, ma Catz (che probabilmente si stava godendo tutta la faccenda) balzò avanti, la pistola spianata, e con la mano libera si aggiustò la maschera sul viso. — Torna subito dentro! — urlò, fingendo un tono di voce secco.

Cole le corse dietro. La stanza danzava attorno ai fori per gli occhi della maschera, appiccicosi di sudore. Nel naso aveva il puzzo della gomma.

L’uomo fermo sulla soglia, le mascelle spalancate in un’espressione di stupore, indietreggiò freneticamente, inciampò, rotolò a terra sul sedere enorme. Catz e Cole lo seguirono di corsa nella stanza, agitando le pistole.

Qualcuno urlò: — Merda! Vogliono rapirci!

In sala riunioni c’erano cinque uomini, compreso l’idiota terrorizzato che era caduto. Cole riconobbe soltanto Rufe Roscoe e il suo avvocato, Salmon.

Due dei presenti non sembravano assolutamente spaventati: Roscoe e un tizio che, a giudicare dal taglio di capelli di moda a New York, non doveva essere di San Francisco. Un uomo dal viso olivastro, con borse nere sotto gli occhi e un sorriso gentile, da uomo d’affari, che gli fioriva sulle labbra da pesce.

Cole ricordava bene la parte che doveva recitare. — Okay — disse a Salmon, sperando di sembrare abbastanza duro — allora, chi devo uccidere? Tutti quanti, o solo quello di cui abbiamo parlato?

Il tipo che non era di San Francisco lanciò un’occhiata calma, ma piena d’interrogativi, a Salmon. Vedendolo di profilo, Cole lo riconobbe: Gullardo, l’ambasciatore della mafia. Aveva visto una sua foto di profilo in un articolo. Sotto la maschera, Cole sorrise. Ai capoccia del sindacato criminale nazionale avrebbe dato molto fastidio un’irruzione a un incontro a cui partecipava uno dei loro. Benissimo.

Cole alzò la pistola, la puntò su Gullardo. — Vuoi che lo uccida o no? — chiese a Salmon.

— Co… Eh… No!

— Hai cambiato idea? — chiese Cole. E fu in quel momento che la pistola sparò.

Cole fissò l’arma, stupito.

Non aveva premuto il grilletto. Ma Gullardo piombò giù. Aveva la gola lacerata, sputava sangue.

— Merda, Città! — disse Cole, indietreggiando.

Si girò, corse via. Catz lo seguì, urlando qualcosa che non riuscì a capire. Quando superò la porta, nel legno si scavò un foro, e qualche scheggia lo colpì alla guancia.

La porta dell’ascensore li attendeva spalancata. Catz e Cole si gettarono nell’ascensore, si appiattirono contro la parete. Un altro proiettile colpì il muro quasi all’altezza del soffitto, a pochi millimetri dalla testa di Cole. — Cristomadonnasantissima — esclamò Cole, automaticamente. La porta dell’ascensore si chiuse. Qualcosa sbatté dall’altra parte con uno spang metallico. Poi l’ascensore cominciò a scendere. Diciassettesimo piano… dodicesimo… ottavo… quinto…

— Fermati al primo piano, Città! — urlò Cole. — Facci uscire lì, poi prendiamo le scale, se no a pianterreno ci saranno le guardie ad aspett…

Ma l’ascensore superò il primo piano e si aprì a pianterreno. Catz e Cole si accucciarono. Catz sparò una raffica alla cieca. Contro nessuno. I proiettili s’infilarono nel cristallo della porta d’ingresso, disegnarono una complicata ragnatela d’incrinature.