Oltrepassò un gruppo di travestiti, ascoltò distrattamente la loro conversazione: — …Be’, signorina Cosa, senti un po’, tesoro, ma ti ha dato di volta il cervello a tingerti i capelli di quel colore? Oggi il verde non lo porta più nessuno, e poi andrà a finire che le macchine ti scambieranno per un semaforo e ti passeranno sopra.
Cole sorrise debolmente. Non funzionava. Stava cercando di perdersi nella città. E non funzionava. Era il dolore che sentiva dentro a isolarlo.
E camminava troppo in fretta. Raggiungeva di continuo la gente (uomini barbuti in jeans e stivali militari, gay in tenuta da motociclisti coi pantaloni senza fondo, coppie e trii e gruppi di otto o dieci persone che si passavano spinelli e ridevano e si raccontavano battute oscene senza senso) che aveva davanti sul marciapiede, doveva superare tutti, aprirsi un varco. Un travestito gli lanciò un’occhiata furibonda e gli disse: — Ehi, ragazzina, non camminarmi sui tacchi, queste puttane di scarpe le ho appena comperate.
— Scusa — mormorò Cole, continuando disperatamente ad avanzare.
Il cuore gli batteva velocissimo.
Stava cercando di lasciare indietro le immagini… cercava di reprimerle… e le rivedeva all’infinito.
Sulla moquette c’era un uomo. Era morto, perdeva sangue. E, chino su di lui, c’era un altro uomo che stringeva una pistola fumante.
Entrò nel bar più vicino, si fece strada a colpi di gomito tra la folla al banco, e urlò: — Un bourbon liscio! — al barista. Il barista, un finocchio piccolo, avvizzito, che s’era tinto troppe volte i capelli, si leccò le labbra e mostrò la lingua a Cole.
Il jukebox stava suonando un pezzo dolce di Amanda Lear… Il barista guardò negli occhi di Cole, e capì. Scrollò le spalle, gli versò da bere. Gli versò una dose doppia. Cole si trasferì col bicchiere in un séparé d’angolo, vuoto; sedette, bevve, rabbrividì al gusto forte del liquore, tremò per lo sforzo di allontanare…
E non ci riuscì.
L’uomo era riverso sullo stomaco, gemeva come un bambino preso a schiaffi, cercava di fermare con le mani il fiume di sangue che gli usciva dalla pancia…
— Città… — disse, roco, Cole, a niente, a nessuno.
Cole alzò la pistola, sparò alla testa dell’uomo. Ancora. Ancora. Due proiettili mancarono il bersaglio. Uno colpì la guardia alla spalla destra…
— Città! — uggiolò Cole, i denti serrati, gli occhi chiusi.
Gullardo piombò giù. Aveva la gola lacerata, sputava sangue…
— Città! — urlò Cole, e riaprì gli occhi.
— Tutto bene, ragazzina? — Un ometto con la barbetta a punta e un solo orecchino gli sorrise debolmente. Qualcun altro si avvicinò al tavolo: un travestito, scoprì Cole, indifferente. Trangugiò il liquore in tre sorsate, rabbrividendo, e si alzò.
— Ragazza mia, hai una cera orribile — disse il travestito quando Cole lo superò. — Sarà meglio che tu vada a casa e…
— Sì — disse Cole. — Sì, grazie. È proprio quello che voglio fare. Vado a casa. — Uscì, strizzando gli occhi.
S’incamminò per strada alla cieca, mormorando scuse, respirando pesantemente, quasi senza accorgersi che oltrepassava discoteche gay, cinema gay, poliziotti gay che si tenevano per mano mentre pattugliavano, negozi di olovisori gay. e ristoranti gestiti da gay. Marciò furiosamente senza una direzione.
Alla fine si fermò, si scosse. Si riempì i polmoni d’aria e riprese il controllo di sé. Era in centro, dalle parti dell’Embarcadero Center; macchine a gasolio correvano alla sua destra, i grattacieli si ergevano duri e freddi e tozzi alla luce dei lampioni. I marciapiedi erano quasi deserti. Alla sua sinistra, qualcuno era coricato in un portone buio.
Cole si tese. La figura scura riversa sotto il portone aveva occhiali da sole a specchio, un cappello logoro e un lungo impermeabile. Dall’altezza del suo ventre usciva una musica in sordina…
— Città? — sussurrò Cole, avvicinandosi. Si chinò sulla forma dormiente. — Città? — L’uomo sotto il portone puzzava di vomito e di vino. Gli occhi di Cole si abituarono al buio. Fissò il viso dell’uomo: gli occhiali gli pendevano sul naso, di traverso. Dormiva, russando piano. Un messicano con la faccia da falco devastata dall’acne. La musica usciva da una radiolina portatile, semi nascosta nell’ansa del braccio. Era una stazione rock che andava e veniva, fra continue scariche.
Cole fece per allontanarsi, completamente deluso.
— Come ti senti, Cole?
La voce di Città, alle sue spalle.
Cole si girò di nuovo verso la figura che dormiva, le ginocchia sotto il mento, all’ombra del portone. L’uomo continuava a russare.
— Città?
— Sì, Cole. — La voce proveniva dalla radio, più forte della musica.
Cole si riavvicinò al portone, si chinò davanti alla radio, parlò piano per non svegliare l’ubriaco. — Città… sono fritto. Sto male.
— Come mai? Perché, Cole? — chiese la radio. E la musica, in attesa di una risposta, riprese il sopravvento.
— Sono disgustato. Mi viene da vomitare di disgusto. È strano… All’inizio non stavo troppo male. Sarò stato sotto choc, immagino. Poi ho cominciato a tremare, mi è piombato tutto addosso. Ho ucciso quell’uomo. L’abbiamo ucciso tu e io, tutt’e due. Mi hai mentito. E la guardia… Forse Gullardo doveva morire, forse se lo meritava… Merda! La sua gola squarciata… Ma quella guardia non sapeva niente di questa faccenda.
— Era sotto droga, Cole. Quella guardia era un paranoico drogato. Avrebbe ucciso chiunque fosse uscito dall’ascensore.
— Ammesso che sia vero, doveva pur esserci un altro modo di neutralizzarlo, anziché…
— Doveva esserci, ma non c’era. — La voce di Città era più alta, più stridente. L’ubriaco si agitò e gemette nel sonno.
— Senti, io non posso fare cose del genere, non posso… non posso prendermene la responsabilità. Non posso giudicare quella gente e ammazzarla. Non mi piace come sta andando questa situazione, non mi piace quello che sento… — Cole s’interruppe per schiarirsi la gola. Stava singhiozzando. Le macchine ululavano alle sue spalle. Guardò lungo i due lati del marciapiedi: non arrivava nessuno.
— Doveva succedere, Cole. Doveva verificarsi questo momento di presa di coscienza di te stesso. All’inizio stai male, hai paura, sei disorientato, poi ti riconosci, riconosci il tuo ruolo, e capisci.
— No, uomo. Io non capisco proprio niente.
— Cole, non sei stato tu a sparare. Sono stato io. Forse ti ho usato per farlo. Tu eri il mio veicolo. Ma la scelta, la responsabilità, sono mie…
— Però io ho il diritto di scegliere, o almeno dovrei averlo, se voglio o non voglio essere il tuo fottuto veicolo…