Выбрать главу

— Uh-uh. No, Stu, questa scelta è stata fatta molto tempo fa. Tu sei stato scelto, ma al tempo stesso ti sei offerto volontario. Hai accettato di diventare parte di me, di essere il mio agente, molto prima di vedermi nel tuo club. E adesso una domanda importante, Stu: io cosa sono? Cosa credi che sia?

Cole esitò. — Sei… l’inconscio della città. L’inconscio collettivo, solidificato in una sola mente. Almeno, questo è quello che dice Catz.

— Abbastanza vero. Ma allora, rifletti, quali sono le implicazioni della cosa? Io realizzo i desideri frustrati di tutta la gente di questa città. In cuor loro, hanno paura del Tif e dell’Uee e della computerizzazione del mondo e del decentramento della città. Hanno paura degli uomini che si servono di questi strumenti per assumere gradualmente il potere assoluto. Nonostante il condizionamento che li spinge ad accettare tutto questo a livello conscio, inconsciamente vogliono opporsi. E hanno creato me per poter lottare, e scelto te come mio agente fisico. Sono stati loro, Stu, a uccidere Gullardo. Sono stati loro a uccidere i vigi per strada. E tu sei sempre stato a favore di un governo collettivo, di un’espressione collettiva delle personalità. Tu sei sempre stato dalla loro parte, Cole. Adesso stai semplicemente eseguendo i loro ordini. Tu sei il bambino, e loro la tua famiglia.

Cole rifletté. L’idea funzionava, gli andava bene. Era un’ottima giustificazione razionale. Poco importava che Città avesse o meno ragione dal punto di vista morale. L’importante era che Cole possedeva una giustificazione per le cose che aveva fatto quella sera. Il sangue non macchiava più soltanto le sue mani. La responsabilità era condivisa con tutti coloro che vivevano attorno a lui. E chi poteva giudicarlo? Si sentì più leggero. Rabbrividì, ma questa volta di sollievo.

— Okay — disse.

— Ci saranno momenti — disse Città — che tu dubiterai di loro, e di me, e vorrai lasciarci. Forse succederà stasera stessa, più tardi. Ma adesso sai come affrontare questi momenti. Passerà. Non permettere che nessuno faccia leva sul tuo senso di colpevolezza morale, Cole.

A chi stava alludendo Città? A Catz?

La radio gracidò, ricominciò a trasmettere musica idiota. Città se n’era andato.

Ma adesso la sua presenza era lì, foltissima nell’ammasso di edifici che circondavano Cole.

Cole riprese a camminare, sorridente, sollevato. Si sentiva libero. La tensione era scomparsa. Pensò al suo club e svoltò l’angolo, diretto da quella parte: verso l’Anestesia.

Gli venne in mente che s’era incamminato verso il club così come i pensieri s’incamminano verso la piena comprensione di un’idea, o verso un ricordo che si vuole rivivere. La città era una mente enorme, una matrice di idee, di concetti compressi nel cemento e nell’asfalto; e lui era il centro di coscienza che percorreva quella mente, che sfiorava un’idea (un punto della città) e poi un’altra. I nomi delle vie sistemati in bell’ordine, sfumando l’uno nell’altro, erano come i percorsi delle libere associazioni d’idee.

Si sentì, più che mai, parte della mente di Città.

— Ehi, Stu! — Alzò gli occhi, vide Catz ferma davanti al club Anestesia. Sorrise, la salutò col braccio. Lei parve sollevata. Lo raggiunse, lo prese per mano, e assieme entrarono nel clamore del club. Come per muto accordo, parlarono di tutto, di qualsiasi cosa; tranne che di Città e dei morti del Pyramid Building.

Andarono nella stanza sul retro, e Cole versò due birre. Parlarono di musica, e del pubblico, e riuscirono quasi a dimenticare.

Però, nella voce di Catz c’era un leggero tono d’accusa. Combatteva con se stessa, per impedirsi di parlare di quello che era successo. Cole sentì tornare il disgusto di sé. “La faccenda non è in mano mia” si disse. “Per me hanno deciso tutto quelli che vivono in città.”

Si alzò, si stiracchiò, disse che doveva mettersi a lavorare. Catz annuì, fissando il pavimento. Cole rientrò nel locale.

Per due ore si perse nel lavoro. Versò da bere e nutrì il mostro dalle mille bocche; lavò bicchieri e tenne d’occhio gli incassi e pulì il banco; fece partire e ripartire la disco computerizzata e studiò carte d’identità e buttò fuori gli attaccabrighe e finse di ascoltare aneddoti che il fracasso non gli lasciava sentire; versò da bere, da bere, da bere.

A volte faceva tutte queste cose una dopo l’altra, eseguiva in cinque minuti una serie di lavori a velocità record; rimbalzava avanti e indietro dal banco come una palla da biliardo che rotolasse sul tappeto verde, contro le sponde. Un sollievo enorme. Riusciva a essere una parte funzionante del grande congegno della città notturna, e si sentiva a proprio agio.

Versò da bere, lubrificò gli ingranaggi della Grande Macchina del Sabato Sera, senza mai perdere d’occhio il suo regno fumoso, dominato da una sfera a specchi.

Lo squillo del registratore di cassa, l’acciotolio della lavastoviglie, i barriti animaleschi dei clienti: tutto si fondeva in un mare tempestoso di suoni.

Era il capitano del club Anestesia. Era il primario che somministrava l’oblio in siringhe a forma di bicchiere, e poteva benissimo dimenticarsi la guardia che si contorceva sulla moquette e l’italiano con la gola squarciata al diciottesimo piano di un palazzo progettato per sopravvivere ai terremoti… Riusciva a scordarsene anche per mezz’ora di seguito. E poi gli tornava in mente che è stata tutta quanta la città a premere il grilletto; io ho solo eseguito l’ordine.

Ma, di tanto in tanto, rivedeva davanti a sé il palazzo piramidale, ed era diverso; somigliava alla piramide stampata sui vecchi biglietti da un dollaro, quella con sopra un occhio enorme, fisso.

“Appena capiranno che Salmon non li ha traditi” pensò “verranno a cercarmi. Sarò uno dei primi sulla loro lista di sospettati. Sanno che ho motivi per odiarli.”

Quindi, non restò sorpreso quando alle dieci, dopo che la banda di Catz aveva suonato per un’ora, due uomini in abito grigio entrarono e si avviarono, decisi, verso il banco. Quello più anziano aveva occhiali con le lenti gialle, e il suo viso affilato sembrava ancora più piccolo per le cicatrici da ustioni che aveva sulle guance. L’altro era più giovane, più basso, di carnagione scura, con occhi castani e capelli neri; probabilmente un messicano.

Cole fece loro segno di avvicinarsi all’estremità del bar, dove la folla era meno fitta, e quando i due lo raggiunsero capì di aver commesso un errore: avrebbe dovuto ignorarli finché non l’avessero costretto a interessarsi a loro. Comportandosi come se li stesse aspettando, si era compromesso.

L’uomo con le cicatrici disse: — Cole? Drummond — e indicò se stesso con un cenno quasi impercettibile del pollice. Poi accennò al tizio che sedeva al suo fianco. — Il sergente Hulera. — Drummond gli mostrò il portafoglio col distintivo della polizia.

Hulera, che anche muovendo le labbra riusciva a conservare un’ombra di sorriso, chiese: — Ci stavate aspettando? Qualcuno vi ha avvertito?

— Cosa? Uh… — Non balbettare, si disse Cole. — No, cavoli, no. Però so riconoscere un poliziotto quando lo vedo. E siccome voi non siete quelli che di solito fanno servizio di pattuglia qui, ho pensato che voleste parlare con me. Ecco tutto.

Drummond parve soddisfatto della risposta. Ma Hulera chiese: — E per caso sapete perché vogliamo parlare con voi?

— Oh, piantala con questi giochetti — disse Drummond, irritato. — Non è mica scemo… Cole, sapete niente dei ragazzi che ci hanno rimesso le penne nel palazzo della Cracker Bank? È successo solo poche ore fa.

— Ragazzi? — chiese Cole, fingendosi annoiato. — Volete dire ragazzini?

— Voglio dire guardie. Una ha fatto una fine piuttosto brutta.