Catz ascoltava. Dentro, le sembrava di sciogliersi. Il sudore le imperlava la fronte. Sullo sfondo, dietro la voce senza corpo, la sua band gemeva e vibrava e urlava l’angoscia rock: una sonorità ridotta all’essenziale, una musica rabbiosa e veloce, come l’eco di un treno della metropolitana che entrasse in stazione.
La voce sul nastro raccontò una storia.
UUUNOOO!
Erano le dieci di sabato sera, il che significa che il club era pieno al massimo. Ma non era semplicemente pieno, era tumescente. La gente quasi usciva dalle finestre, il che andava benissimo a Stuart Cole. Il club viveva degli incassi extra della folla straripante del sabato. Però, purtroppo, lui doveva anche assumere, e peggio ancora pagare, tre (uno due tre) buttafuori per quell’unica serata. E Cole, per il momento, aveva trovato un solo buttafuori, già distrutto, con le nocche spellate. Ne stava cercando altri due. Sino ad allora, avevano rifiutato l’offerta due ex lottatori, un ex berretto verde e un tipo nerboruto. A quanto pareva, volevano uscire di lì con la faccia intatta. L’Anestesia godeva di una certa reputazione…
Cole stava preparando un Chiodo Arrugginito e pensando ai buttafuori quando notò l’uomo con gli occhiali da sole. Lo notò come gli occhi di chiunque notano un galleggiante in mezzo alle onde: una cosa solida in un liquido in movimento. Le folle sono liquide, percorse da correnti e mulinelli. Le persone sono cose morbide, fatte più che altro d’acqua, e quando si spostano creano un movimento ondulatorio, senza strappi improvvisi. Invece, quell’uomo era una nave rompighiaccio: duro, implacabile, anche se con una sua grazia particolare. Non era enorme, e nemmeno troppo solido, ma aveva un’aria d’inflessibilità. Di resistenza.
Il buttafuori ideale.
Soppesandolo, Cole decise che non era ricco: il suo impermeabile nero di stile militaresco era strappato in due punti e senza cintura, e il cappello nero a falde larghe che gli scendeva sul viso stava perdendo ogni forma. Gli occhiali da sole scuri sembravano nuovi, riflettevano le luci che danzavano sulla sfera a specchi appesa sopra la pista da ballo. “Forse è un poliziotto in incognito”, pensò Cole. O forse, peggio ancora, un vigilante. I vigi avevano promesso di fare piazza pulita delle prostitute con tutta una serie di incursioni, e lì dentro le prostitute non mancavano.
L’uomo aveva una faccia squadrata, pallida, senza segni particolari; però tozza, un po’ come un viso umano scavato nel marmo. Il mento, tagliato in due da una fossetta, sporgeva molto più in fuori del naso rincagnato. I capelli erano corti, riccioluti, con sfumature d’un blu-nero metallico. Era sul metro e settantacinque, di corporatura media. Ma quella sua aria da grattacielo incrollabile prometteva una forza irresistibile.
Cole restò a guardarlo, pensando: “Attento a chi assumi…”. A San Francisco, non si potevano correre rischi con un maniaco qualsiasi preso dalla strada. Doveva essere il tipo giusto di maniaco…
Cole restò a guardarlo senza dare nell’occhio. Lasciò Bill Wallach a versare da bere e finse di voler controllare gli impianti sul palco, pensando che da lì avrebbe visto meglio l’uomo.
È così, raddrizzando microfoni e spostando fili senza nessun bisogno, Cole guardò. L’uomo con gli occhiali a specchio era fermo all’ombra del distributore di sigarette, ai margini della folla. Impassibile, osservava. Cole avrebbe voluto potergli vedere gli occhi.
Lo sguardo di Cole tornava di continuo sulle labbra dell’uomo. Erano labbra esangui, serrate, tirate all’indietro, e non si muovevano mai, nemmeno di un millimetro. Catz venne sul palco a chiedergli se l’impianto era a posto, e perché diavolo stava armeggiando con la cinghia di una chitarra…? — La sto, ehm, sistemando, Catz. Senti, credi che potresti tenere d’occhio quel tizio vicino al distributore di sigarette? Quello con gli occhiali a specchio. O è pericoloso, o è il buttafuori perfetto. Voglio saperlo. Non voglio andare a offrirgli un lavoro se non so che è a posto, che non è un maledetto infiltrato dei vigi…
Catz scrollò le spalle, annuì, e i suoi capelli corti, venati d’argento, danzarono attorno al suo viso vorace come la frangia di una tenda; i suoi occhi dorati si socchiusero, segno che lei voleva fare una domanda. Cole fece di no con la testa e tornò dietro il banco, ad aspettare il rapporto di Catz.
La band salì sul palco. Quando ebbero accordato e sistemato e acceso gli strumenti, Cole premette l’interruttore che fermava il nastro della disco music e urlò nel microfono del banco: — Zinnone e genitaluomini, CATZ WAILEN! — Metà della gente sulla pista da ballo urlò, e l’altra metà rise. Tutti mormorarono ansiosamente. Anche quelli a cui Catz non piaceva avevano sentito storie sul suo conto.
Catz, accordando la chitarra, si chinò a mormorare qualcosa a una cameriera. La ragazza annuì e si fece strada verso Cole tra la marea di mani protese.
— Catz mi ha detto di dirti che il rapporto è nelle parole della canzone. Di cosa diavolo stava parlando?
— Te lo spiego dopo — rispose Cole, anche se non aveva nessuna intenzione di spiegarglielo. La cameriera riempì il vassoio di bicchieri e ripartì per dar da bere agli assetati, e Cole aspettò. “Il rapporto è nelle parole della canzone?” Rabbrividì. Era uno dei pochi in grado di capire il senso dei testi di Catz. Perché la conosceva da anni? Forse. Ma anche perché tra loro esisteva affinità. Molti non sapevano che Catz improvvisava le parole cantando, le componeva sul momento. Ogni sera erano diverse. Per questo era raro che fossero in rima.
La band era pronta, sistemata, elettrificata, in attesa. Era un gruppo di cinque persone, un gruppo di angoscia rock. e Catz era la leader. Catz strizzò gli occhi quando si accesero le luci del palco, poi diede un colpetto sul microfono per vedere se funzionava e abbaiò alla folla: — CHIUDETE IL BECCO!
Cole non aveva mai visto un altro cantante capace di ottenere risultati concreti a quel modo.
Quella sera, il pubblico era particolarmente rumoroso. Fracassava bicchieri, lanciava bottiglie di gomma, rideva e strillava. Il rumore avrebbe continuato a salire d’intensità; entro mezzanotte, la folla avrebbe sguazzato nel proprio tuono, un unico urlo gigantesco che avrebbe fatto tremare le pareti. Solo che Catz, una donna piccola, sottile, fragile, col collo lungo, aveva detto chiudete il becco.
E quelli avevano chiuso il becco.
Era miracoloso: era scesa la quiete. Qualche colpo di tosse, una risata sottovoce, i clic degli accendini. Il locale pieno di fumo fu percorso qua e là da un bagliore: qualcuno accendeva uno spinello, in attesa della musica. La gente sulla pista da ballo si preparò, rilassò il corpo, pronta a lanciarsi nel ritmo del primo pezzo.
Quella calma era innaturale; tutti attendevano che finisse. L’attesa fu più che soddisfatta quando la band si lanciò nel primo brano. Un’esplosione improvvisa di suoni, di frastuoni elettrici. La prima chitarra attaccò un a solo potente: sembrava un argano senz’olio che tentasse, ululando, di sollevare una tonnellata di rottami metallici.
Il tuono del basso unificava i gemiti degli altri strumenti, ne faceva una forza d’urto compatta, così come le viti tengono assieme un carrarmato lanciato alla carica. Catz mise giù la chitarra ritmica e iniziò a cantare. Cole, teso, decifrò le parole: