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Catz si limitò a stringersi nelle spalle. Cole non capì se si trattasse di una risposta, oppure se lo faceva semplicemente perché non riusciva a sentirlo.

La band proseguiva nel suo sound frenetico: una falange di carri armati che avanzavano sul campo di battaglia. I giri melodici erano precisi e impeccabili, ma amplificati e arrangiati con tale asprezza da farli sembrare, a un orecchio non esperto, un semplice caos di rumori. Però, come un carrarmato sembra, a prima vista, niente di più che una macchina sgraziata destinata a produrre morte, così la musica, studiata nelle sue varie componenti, si rivelava composta di un’infinità di parti perfettamente studiate e fuse l’una con l’altra. Una grande macchina musicale.

L’ampio Auditorium, costruito per ospitare fino a 55.000 persone, era dominato dall’immensa pista da ballo, in quel momento affollata sin quasi alle pareti su cui si affacciavano le poltrone della galleria. Attorno ai bordi della pista da ballo c’era un margine, molto ristretto, tenuto libero per l’eventualità di un incendio e sorvegliato da dozzine di guardiani e buttafuori. Qua e là scoppiavano risse, venivano lanciate bottiglie, esplodevano bombe lacrimogene, sicché il locale aveva più che mai l’aria di un campo di battaglia.

Sotto la galleria si aprivano tre cancelli che portavano agli ingressi principali. Dai cancelli entrò di corsa un drappello di uomini tutti vestiti con blue jeans e camicie azzurre, coi tratti del viso deformati da calze di nylon. Alcuni erano armati di pistole, altri di manichette “I vigilantes” comprese Cole, stupefatto. Lo spettacolo gli aveva fatto quasi dimenticare lo scopo per cui era lì.

Si voltò a guardare lo spazio libero attorno alla pista da ballo. I guardiani se n’erano andati tutti all’improvviso, come obbedendo a un segnale convenuto.

Urla e movimenti frenetici ai margini della folla indicava i punti in cui i vigilantes si stavano aprendo il cammino. Cole vide scoccare le scintille dai manganelli elettrici.

Catz, cautamente, lo prese per mano e lo guidò verso la fascia esterna di pubblico, verso i vigi. Ma furono costretti a lottare contro una corrente troppo forte: la folla, come un’ameba distolta dal sonno, si spostava in avanti, si allontanava dalla minaccia che aveva alle spalle, correva verso il palco e le uscite laterali.

Gli spettatori in prima fila, schiacciati contro il palco, balzarono freneticamente su, ed erano troppo numerosi perché gli inservienti riuscissero a fermarli. La band, ignorando gli angosciari e i punk che si accalcavano tutt’attorno, che correvano sul palco, si mise a suonare, come per scherzo, un pezzo di Aaron Dunbar, L’iperattivo:

Dio è morto e io voglio il suo posto Sarò il padre divino del cosmico avamposto! Tutti Sono schiavi del piacere Tutti Sono spinti a possedere E l’unico modo per sfuggire alla povertà È fare dell’universo una sacra proprietà… Dio è morto e io voglio il suo posto…

I vigi sparavano a casaccio sulla folla, quel tanto che bastava per farla diventare una mandria impazzita, per spingerla verso il palco…

— Stanno cercando di far schiacciare la band dalla folla! — urlò Catz, incredula.

Il gruppo continuava a suonare, e i visi dei musicisti erano cupi. La musica era sospesa su di loro come un mostro invisibile. Blue Drinker non smetteva di agitarsi, con movenze sempre più folli. Sembrava che si divertisse un mondo nel caos creato dai suoi nemici.

Catz e Cole si ripararono dietro un pilastro di cemento. La folla ondeggiava di continuo da destra a sinistra. Chi cadeva veniva calpestato.

I vigi misero in funzione le manichette e avanzarono verso il nucleo della folla terrorizzata.

Sul soffitto, l’immagine olografica stava cambiando…

Si abbassò, scese dalle travi metalliche del soffitto fin sopra gli spettatori. Giunse così vicina che, nonostante il panico, nessuno poté ignorarla.

Adesso l’immagine era quella di un vigilante, con la schiena decorata da stelle rosse, azzurre e bianche, che stava strangolando Blue Drinker…

“Questa è opera di Città” pensò all’improvviso Cole.

I vigi alzarono la testa, esitanti, stringendo in mano manganelli o pistole o manichette o corpi contundenti.

La folla rallentò il ritmo della fuga, guardò in su per scrutare l’immagine proiettata sul soffitto: adesso era un enorme ritratto tridimensionale di Lance Galveston, il capo del sindacato criminale. Lo riconobbero quasi tutti. E Blue Drinker, sul palco, scoppiò in una risata e fece segno alla band di continuare. La grande macchina dell’heavy-metal rock non si fermò.

Le manichette dei vigilantes avevano smesso di spruzzare schiuma. I vigi che le avevano usate abbassarono gli occhi, le guardarono, confusi.

L’immagine di Lance Galveston girò su se stessa, fissò la folla. Era un vecchio col viso rugoso e gli occhi gialli. Le sue mani tremanti slacciarono la patta dei calzoni… e Galveston urinò sulla folla. Alle sue spalle, ologrammi di vigilantes ridevano e ammiccavano.

E la musica, col suo messaggio non verbale sempre più forte, sempre più marziale, eccitò ulteriormente il pubblico…

All’unisono, la folla si girò, e, spronata dai messaggi visivi di Città, attaccò. I vigilantes indietreggiarono, caddero, corsero verso le uscite in cerca di rifugio. Qualcuno si voltò, si mise a sparare all’impazzata; una, due, tre persone tra la folla precipitarono a terra, ma tutti gli altri continuarono ad avanzare, calpestarono chi era caduto, misero le mani su chi stava sparando, li abbatterono, li linciarono in un’orgia catartica. Una rabbia repressa troppo a lungo, il risentimento inconscio per ciò che i vigi rappresentavano, scoppiarono, si proiettarono all’esterno. A uno a uno, i vigilantes vennero catturati e massacrati…

Cole corse dietro a Catz. Superarono un archivolto, percorsero un corridoio, arrivarono all’uscita sud, furono all’aperto.

Il rombo del traffico sembrava solo un debole mormorio, inconsistente, dopo le ondate di suono che li avevano travolti.

Corsero fianco a fianco nel parcheggio, evitando le automobili che si lanciavano, isteriche, sulla strada. Catz distanziò Cole: la ragazza stava correndo verso un gruppo di vigilantes in fuga, a una cinquantina di metri di distanza. L’aria della sera devastò i polmoni di Cole; le sue orecchie gemevano ancora per l’amplificazione della band.

Raggiunse Catz. Il panorama di macchine immobili si trasformò in una serie di prospettive metalliche. Cole sbuffava, il viso era in fiamme per lo sforzo.

Davanti a loro, sull’altro lato di una vecchia Cadillac nera, tre uomini si stavano ammucchiando nella cabina di guida di un camioncino Datsun azzurro, col cassone coperto da un tettuccio bianco da camper. Un modello del ’79. I fari del camioncino si accesero, il motore partì.

Correndo a testa bassa, Catz si lanciò verso il cassone del veicolo. La portiera posteriore era aperta: probabilmente i vigi avevano portato con sé altra gente, che adesso abbandonavano. Catz non ebbe difficoltà a saltare a bordo. Cole, ormai senza fiato, la seguì debolmente, cominciò a scavalcare la sponda. Era metà dentro e metà fuori quando il camioncino ebbe un sussulto e partì, scaraventandolo quasi sull’asfalto. Ma Catz lo afferrò per il colletto e lo tirò su a strattoni. Cole sbatté violentemente la tibia contro un cric, si sbucciò la gamba, lanciò un urlo di rabbia. Il retro del camioncino era scuro, ma se gli uomini che stavano in cabina di guida si fossero girati, probabilmente avrebbero visto i due passeggeri clandestini.

Cole, avanzando su mani e ginocchia indolenzite, seguì Catz sul metallo freddo del cassone.

Si fermarono in un angolo sotto il finestrino posteriore della cabina di guida: lì potevano accucciarsi sui due lati del finestrino e non essere visti.