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— Città! — urlò Cole allo schermo. — E dai, parlami!

Non c’erano immagini a rispondergli.

— Lo so che mi stati ascoltando! — gridò. — Porca miseria, fatti vedere!

Il rettangolo azzurro-bianco fu scosso da brividi allettanti. Però, niente.

— Città! Fatti vedere, parlami, se no io me ne vado da San Francisco! Me ne vado e racconto tutto al National Enquirer!

E Cole aspettò.

Niente.

Passò da canale a canale. Notiziari, pornografia, quiz, Panoramica delle esecuzioni capitali. L’ora della disciplina dei bambini con James Bondage… E Città non c’era. Tornò sul canale libero.

Catz.

Cole aspettò, agitò i pugni, si chiese dove l’avessero portata. In lontananza risuonavano le sirene delle pompe antincendio, dirette alla casa in fiamme, tre isolati più a nord.

Cole, in piedi, oscillava, fremeva, si agitava come un’antenna televisiva sotto un vento troppo forte.

— Città! — gemette, con voce sempre più roca.

E poi: sullo schermo, un busto bidimensionale, scuro, coi tratti cupi, inflessibili.

— Città… Perché non hai liberato anche lei? Perché non hai fermato quella macchina?

— Ho deciso di non servirmi più della donna.

— Cosa? Perché?

— Non mi è fedele.

— Ma sei… Cosa? Se è stata lei a convincermi a uscire stasera! Ha fatto tutto quello che volevi farle…

— No… Io posso arrivare dentro di lei, ai suoi pensieri. Non si fida di me. Ha fatto quello che ha fatto per te. È convinta di proteggerti. Non voglio che resti con te. Posso proteggerti io.

— Sarebbe lei a proteggermi? E da che cosa?

Città non rispose.

— La libereremo — disse Cole, a labbra serrate.

— No.

La bocca di Cole si spalancò. Lui fissò lo schermo, senza capire. — No — ripeté, scuotendo la testa. — No? Senti, insomma… Non c’è bisogno che tu ti serva di lei. Basta che le salvi la pelle e che la lasci… che la lasci andare per i fatti suoi.

— Non posso. Adesso non ne ho la forza. Stasera ho usato troppe delle mie risorse. Sono debole.

E l’immagine scomparve.

— Bugiardo. Maledetto fottuto bugiardo — disse Cole allo schermo vuoto. Girò sui tacchi, uscì, raggiunse il telefono. Chiamò un taxi.

Però Cole aspettò sino al giorno successivo prima di fare una mossa. Aveva passeggiato su e giù per il suo appartamento tutta notte, fumando un sigaro dopo l’altro, finché non sentì in bocca il fetore di una marmitta, finché la stanza non fu invasa dal puzzo di fumo rancido. Si era avvicinato al telefono sei o sette volte per chiamare Bill, con l’idea di assoldare qualche gorilla per liberare Catz. Ogni volta, raggiunto il telefono, le sue dita iniziavano automaticamente a premere la tastiera; poi, appena riceveva il segnale di libero dall’altra parte, interrompeva il contatto. Perché, se davvero Città era deciso a escludere dalla partita Catz, avrebbe potuto fermare Cole. Di notte, aveva l’energia necessaria. Di giorno, Città non poteva fermarlo.

— Forse in questo momento la stanno picchiando — si diceva Cole. — La stanno torturando.

Alle due di notte mormorò: — Forse la stanno picchiando e violentando.

Alle tre gemette, con voce insolitamente stridula: — Forse la stanno tagliando a pezzettini.

Alle quattro pianse.

Alle cinque cominciò a bere. Cole non beveva spesso, ma quando ci si metteva si vendicava dei periodi d’astinenza. Si vendicava dei periodi d’astinenza: un’espressione perfetta. Beveva sempre per rabbia contro qualcuno. Come se il fatto di smorzare la propria autocoscienza servisse, in qualche modo, a cancellare dal mondo i suoi nemici.

Alle sette aveva il vomito e barcollava. Comunque, cercò di mandare giù un altro gin-and-tonic. Non riuscì a correre fino in bagno, per cui dovette vomitare nel lavandino della cucina.

Chino sulla porcellana bianca, scosso dai conati, invocando il nome di Catz, pensò: “Dio m’aiuti, mi sono innamorato”.

Dopo un po’, la testa gli si schiarì quel tanto che gli bastava per fare del caffè. Gli tremava la mano; si bruciò con l’acqua calda che scendeva dal rubinetto. Bevve quattro tazze di caffè.

Quando sollevò il braccio, si morse la lingua al dolore che gli correva nella carne ferita.

Il combattimento tra caffeina e alcol gli fece venire un mal di testa da campionato. Si cambiò d’abito; fece un bagno, cercando di mascherare le ferite sul viso. Dopo una prima occhiata, stette bene attento a non guardarsi più nello specchio.

Poi chiamò Salmon.

— Il signor Salmon vuole vedere con chi sta parlando — disse la segretaria, di cui si udiva la voce ma non si vedeva l’immagine. Sembrava una donna di una certa età.

— Mi spiace. Il mio schermo è partito. Non riceve e non trasmette. Il signor Salmon sa perché. Nemmeno io posso vedere lui, se questo vi consola. Comunque ditegli che lo ha chiamato Stu Cole e che è per la faccenda dei suoi ragazzi al concerto. — Lo fecero aspettare venti minuti.

Cole pensò: “Forse stanno venendo qui.” Aveva una pistola nascosta nell’armadio, in una scatola da scarpe.

Si avvicinò alla finestra. La strada sembrava normale. Manifesti sui muri di mattoni, come adesivi-ricordo sulla valigia di un giramondo. Bambini messicani che giocavano su un lato della strada; sul lato opposto, un gruppo di ragazzi neri che camminavano e cantavano.

Un invertito e il suo protettore erano fermi alla cabina dell’Interfondo all’angolo.

— Allora? Cole? — La voce di Salmon, dal telefono.

Cole lasciò la finestra, tornò di corsa al telefono. Per abitudine, mentre parlava continuò a fissare lo schermo, anche se era spento. — Salmon? Senti, non mi conosci, o comunque non ci siamo mai incontrati, però…

— So chi siete. Che accidenti volete?

— So per chi lavori tu e per chi lavorano i vigi. E loro hanno fra le mani qualcuno, e ormai immagino che avrai capito a chi alludo. — Cole si accorse vagamente che qualcuno stava salendo le scale del palazzo in cui abitava.

— Avete le idee un po’ confuse, amico. Stiamo indagando sul conto dei vigilantes, e posso assicurarvi che prestissimo…

— Piantala con questa farsa! — urlò Cole. Ogni sillaba gli infilò un ago nelle tempie.

Ci fu un attimo di silenzio. — Salmon? Sei ancora lì? Mi senti?

— Sì… Insomma, signor Cole, se vorrete spiegarmi cosa volete da me sarò lieto di…

— Stronzo, non credere di imbrogliarmi. Se pensi… — Cole s’interruppe bruscamente, si mise ad ascoltare i passi che risuonavano sulle scale. C’erano diverse paia di piedi che si muovevano con una frettolosità strana.

— Va’ a farti fottere, Salmon — urlò Cole allo schermo, e corse all’armadio. Spalancò l’armadio mentre qualcuno tirava un calcio tremendo alla porta d’ingresso. Il catenaccio saltò ma, a giudicare dal tintinnio metallico e dalle bestemmie che si udirono, la catena resistette. Si udì un altro colpo contro la porta. Cole frugò nella scatola da scarpe sul fondo dell’armadio, trovò la pistola, l’alzò esattamente nel momento in cui l’uomo col viso coperto da una calza si girava, incorniciato tra le foto della città appese alla parete del soggiorno, a guardare Cole.