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I tavoli della minuscola stanza erano affollati di angosciari che uscivano da un locale nuovo, il club Sordità (poco più in su lungo la strada cosparsa di neon), e di voguer che portavano al guinzaglio animali dagli occhi dolci, animali in via d’estinzione, col pelo ornato da riproduzioni placcate in oro di carte di credito.

Fuori, si mischiavano angosciali, voguer, qualche cinese dal viso cupo, turisti. Ecologisti con basco, trecce, jeans con toppe di cuoio e simboli solari cosparsi di diamanti artificiali vendevano erba e opuscoli inneggianti al ritorno alla natura. — Perché vivono in città se vogliono tornare alla natura? — mormorò Cole.

Passò, ridendo, un gruppo di angosciali in uniformi da carcerati. Uno restava indietro rispetto agli altri, rallentato dalla palla in miniatura legata da una catena alla sua caviglia destra.

Cole guardò Catz. Tra loro, la tensione riprendeva a crescere. La ragazza s’infilò un paio di occhiali scuri e, all’improvviso, si alzò, stiracchiandosi. Cole si mise la vecchia giacca nera da motociclista e, assieme, uscirono nella sera.

Il cielo andava imporporandosi, le poche nuvole sfilacciate avevano contorni viola. Contro l’orizzonte, la Coit Tower era un gigantesco simbolo fallico. Tenendosi vicini, cominciarono a fendere la folla in continuo movimento. Un gruppetto di turisti giapponesi fotografò Catz, e lei cacciò fuori la lingua quando l’obiettivo scattò. I giapponesi sorrisero, deliziati. Neon e luci puntiformi lasciavano scie allucinogene nella visione periferica di Cole, insegne giganti formavano strati di luminosità accecante. Cole cominciò a rilassarsi, a sentirsi al proprio posto. Le insegne della lunghissima fila di club nudo-dal vivo-sesso-bestialità-masochismo-dal vero sembravano parlargli in un codice subverbale che gli era familiare; le insegne erano disposte secondo una sorta di contrapposizione estetica con la rete di fili dei tram che s’incrociavano sopra le loro teste. Dai pantografi dei tram elettrici scoccavano scintille, ogni volta che un tram superava l’intreccio di fili di un incrocio.

Stormi di gabbiani sbattevano nervosamente le ali, alti sulla città, volando in cerchio al di sopra degli edifici in gruppi compatti, come elementi di un mobile di Calder.

I frequentatori abituali della strada (angosciari, voguer, ecologisti, prostitute) sfilavano su e giù lungo i marciapiedi affollati, mettendosi in mostra nei loro piumaggi sfarzosi, e in lontananza, come in un caleidoscopio, si fondevano gli uni negli altri. A Cole vennero in mente i demoni giapponesi.

Proprio in quel momento, un cartellone a scritte elettroniche cominciò a trasmettere: VENITE A… TROVARCI ALLA… TORRE DI GIADA… UNA CENA INDIMENTICABILE… PER CHI INDOSSA… L’ELEGANZA DELLA GIADA…

La tensione fra loro due era scesa, e Cole cominciava a sentirsi quasi allegro (anche se doveva bloccare dalla mente le immagini di visi confusi che esplodevano in fontane di sangue, dell’uomo con gli occhi incrociati sul foro di proiettile che gli trapassava la fronte).

Ma quando Catz gli prese la mano, rabbrividì. E quando capì che lei lo stava guidando al suo appartamento, le mani di Cole si riempirono di sudore.

Giunti in fonfo alla collina (dopo aver traversato Chinatown, la sua cacofonia di odori, le finestre da cui s’intravedevano oggetti d’avorio e giada, e dopo aver incrociato diecimila paia di occhi a mandorla), Catz si fermò di colpo, scostandolo leggermente col braccio. Cole si girò a guardarla con aria interrogativa, cercando di mascherare l’apprensione. Ma fu lei a chiedere: — Cosa c’è, Stu?

— Niente — rispose lui, cupo, e pensò: “Oh, Cristo, sta cominciando a leggermi nel pensiero”.

— No, sul serio.

Cole scrollò le spalle con foga esagerata. — Uh… non so, Catz. Probabilmente sono preoccupato per Città… Ho paura che ci chiami… È quasi notte. E tu… Senti, te l’ho detto che non ha voluto aiutarmi a liberarti da quei mostri.

— Non me ne importa. Me l’aspettavo. Anzi, credo che mi abbia messo i bastoni fra le ruote quando stavo correndo fuori da quella casa con te, e che abbia fatto in modo che i vigi mi prendessero. Ha ragione: non mi fido di lui. È l’inconscio di centinaia di migliaia di persone estremamente fallibili, Stu. Tu credi che la gente di questa città sia del tutto sana di mente? Ma nemmeno per idea. Sotto ognuno di quei crani placidi si nasconde un nido di vipere. Quand’ero ragazzina, andavo in overdose di acido… e stavo benissimo, solo che a un certo punto perdevo il controllo cosciente di me e non capivo più dov’ero e finivo con l’essere dominata dall’inconscio. E siccome il mio inconscio era pieno di ostilità, combinavo un macello continuo…

Lui la fissò. Dovette alzare la voce, per superare lo stridio di un tram che si stava arrampicando lungo la salita ripida. — Allora perché gli hai obbedito? Perché ci hai aiutati?

— Lo sai perché. Città te l’ha spiegato — rispose lei, seria seria — anche se di questo non mi hai parlato.

Cole fu lieto che, nell’addensarsi di tenebre, lei non riuscisse a vedere il rossore che gli nasceva in viso.

— Merda, mi comporto come un adolescente spaventato — mormorò.

Lei rise un attimo. — Sei così buffo quando parli da solo.

Nel tono di Catz non c’era ironia, ma lui si sentì ferito. Imbizzarrito, allontanò gli occhi.

— Penso che dovresti lasciare San Francisco — disse. — Potrebbe ucciderti.

— Forse me ne andrò — disse lei. — Devo ammetterlo… sono spaventata anch’io. Di solito faccio finta di non esserlo, ma con te non voglio fingere. — La sua voce era stranamente tenera. — Io… Ieri notte, in quell’armadio, credevo di impazzire. Non mi hanno violentata, ma avevo paura che lo facessero. Non voglio trovarmi di nuovo nella stessa situazione. È stupido. Voglio andarmene via con la mia banda. Ma tu non puoi restare qui. Lui ti possiede… troppo. Tra un po’ non riuscirai più ad agire di testa tua, Stu. Devi andartene anche tu.

Cole scrollò le spalle, impotente. — Non credo di poter stare lontano da qui. Non per molto… Non so.

Il semaforo passò al verde. La scritta all’incrocio disse AVANTI, e così s’incamminarono. Traversarono la strada. Sul lato opposto c’era un negozio di articoli da regalo. Dietro la vetrina polverosa, una zingara in legno che leggeva la fortuna. La statuetta, rotta, si trovava in quella vetrina da almeno vent’anni. Quando passarono davanti al vetro, Catz s’irrigidì all’improvviso, stringendo spasmodicamente la mano di Cole. Poi si fermò, restò a fissare la bambolina di legno, quel viso di vecchia rugosa corroso dal tempo che sorrideva malignamente verso di loro. — La testa — mormorò convulsamente Catz. — Prima… prima non era girata da questa parte. Ma quando le sono passata davanti, si è voltata a guardarmi. L’ho visto con la coda dell’occhio…

Il minuscolo volto da zingara li scrutava maliziosamente. Cole ricordò che sì, la testa della statuetta era girata dall’altra parte, pochi secondi prima.

— Forse il meccanismo interno ha ricominciato a funzionare. Le vibrazioni delle macchine o qualcosa del genere — azzardò, senza nessuna convinzione.

Accelerando il passo, quasi trascinandosi dietro Cole, lei si voltò e disse: — Balle! È Città. Lo sento. Mi sta tenendo d’occhio. Quello era solo un avvertimento. Un segno. Si sta risvegliando. Mi segue. — Le si spezzò la voce. — Oh, all’inferno!