La chitarra solista si lanciò in un lungo “a solo”, ritraendo la gioventù nel linguaggio dell’elettricità. Catz danzò, in cento variazioni, gli ultimi spasimi della falena bruciata dalla fiamma della candela. Catz tirò un calcio nel sedere del bassista e rise e aprì ad arco le braccia e balzò in aria a più di un metro, girò su se stessa, tirò un altro calcio al ragazzo della chitarra solista mentre scendeva, chiuse di colpo le ginocchia, batté le mani, atterrò sul palco, tracciò percorsi serpentini col collo, agitò il sedere e le spalle in una doppia provocazione, e non perse mai il ritmo.
Batteria e basso tacquero, in drammatica attesa. I grandi occhi d’oro di Catz si spalancarono ancora di più. Il sudore le aveva appiccicato alla testa i capelli color platino. Il suo viso perse ogni incertezza, e lei accennò all’uomo con gli occhiali a specchio; poi cantò:
Catz urlava fuori nota, quasi senza seguire la musica, e il pubblico non aveva nessuna idea di che cosa stesse dicendo. Però l’adoravano. Perché lei dava la sensazione di credere in tutto quello che cantava.
La canzone salì d’intensità, come fanno le guerre, la sfera di vetro sfaccettato girò proiettando frammenti di luce, bottiglie di gomma volarono nell’aria, il fumo si avvolse a spirale, e Catz fissò intensamente Cole (e Cole desiderò non essere un quarantaduenne con la pancetta) e disse nel microfono: — Questa parte della canzone… Ehi, porci, mi state ascoltando? — La folla, rabbiosamente felice, rispose con un urlo. — Okay! Figli di vacca, questa parte della canzone racconta una storia in dieci parti, come un libro con dieci capitoli. Io vi dirò il numero di ogni capitolo e voi dovrete capire da soli quello che succede visualizzando l’architettura invisibile della musica, e se non ci riuscite andate a farvi fottere, quindi state attenti per Dio! — Catz respirò a fondo, la band si fermò, l’urlo della folla divenne un mormorio, e lei cantò: — UU NOO! — La chitarra solista si lanciò in un riff strangolato, e a Cole sembrò di vedere se stesso e l’uomo con gli occhiali a specchio assieme sulla strada.
Lei urlò: — DUEEE! — Entra di prepotenza il basso e fabbrica l’immagine dell’uomo con gli occhiali a specchio su uno schermo televisivo.
— TRRRRE! — La batteria elabora l’immagine di vigilantes che sparano alla cieca tra gli spettatori di un concerto rock.
— QUAAATTRO! — Il sintetizzatore fa tremare i loro cervelli con immagini sonore sub e ultrasoniche, immagini di Catz e Cole sanguinanti su un pavimento di legno, circondati da uomini che ridono.
— ZINQUEE! — La chitarra ritmica porta la visione di Cole e Catz che fanno l’amore.
— ESSSEI! — Le due chitarre, ruggendo assieme, creano contrasti di luce e ombra, fanno intravedere Cole sdraiato su un letto, con un proiettile nella gamba; al suo fianco, Catz sta preparando le valigie.
— ESSETTE! — La batteria evoca l’immagine di Cole che indietreggia quando un amico gli sbatte la porta in faccia.
— OTTTTTo! — L’organo mostra a Cole se stesso chiuso in carcere.
— NOVVEY! — Cole si vede nudo davanti a uno specchio. Si sta sfregando gli occhi.
— DIECCIII! — Tutti gli strumenti si fondono in un unico accordo, evocando la visione di Cole scosso dagli spasmi, solo in un corridoio, mentre sputa sangue…
La canzone terminò di colpo. Cole dovette correre in bagno. Dopo aver rimesso si sentì un po’ meglio. Si versò da bere per scacciare gli ultimi residui di disorientamento. “Perché mi ha fatto vedere tutte quelle cose?”
Cole tornò dietro il baco e ricominciò a lavorare: una specie di yoga per recuperare la calma. Catz lanciò la band in un altro pezzo.
Lo sconosciuto con gli occhiali a specchio osservava pensoso il palco. Era l’unico a non muoversi al ritmo delia musica. Persino i baristi schioccavano le dita. Ma lo sconosciuto se ne stava lì a guardare e basta. E non si muoveva.
Cole lavorò al banco, nutrì il mostro insaziabile dalle mille bocche che il banco di legno tratteneva a stento: lui versava liquore nella gola del mostro, e le sue bocche ne chiedevano ancora… A intervalli regolari, i terminali dell’Interfondo installati lungo il banco accettavano le carte di credito offerte dai clienti, mostravano se il cliente o la cliente aveva un conto in attivo, trasferivano istantaneamente il denaro dal conto del cliente a quello del proprietario del locale, verificavano l’operazione sul pannello di controllo a cifre digitali…
Come accadeva almeno una volta per sera, qualcuno mise sul banco, al posto della carta di credito dell’Interfondo, denaro contante. Era un vecchio con una gran criniera di capelli bianchi e sporchi e occhi azzurri, acquosi. — Dove sono i tuoi soldi, nonno? — disse Cole. — I soldi veri. La carta del Tif.
— Porca miseria, questi sono i soldi veri. Quella merda di carta è solo…
— Sì, sì, lo so come la pensi, ma noi qui non vendiamo più niente in contanti, fratello. Nessuno vende più in contanti. Non ci pigli nemmeno una birra, con questi. Per un caffè, un liquore, o quello che vuoi, devi avere la carta del Tif… Non so come facciate a cavarvela voialtri che usate i soldi. In città saranno rimasti tre negozi al massimo che li accettano ancora. Il Trasferimento Istantaneo di Fondi…
— Va’ a farti fottere! — abbaiò il vecchio, che si leccò le labbra secche raccogliendo i soldi. — Tanto qui la musica fa schifo!
Uscì. — Mi spiace, nonno! — gli urlò dietro Cole, depresso. “C’è qualcuno che proprio non riesce ad adattarsi”.
Cole era talmente preso dal lavoro che gli altri numeri di Catz volarono in un lampo. Catz annunciò un intervallo e scese subito dal palco. Cole fece ripartire il nastro della disco e versò da bere a Catz. Lei bevve d’un fiato il suo martini dry doppio, e Cole gliene servì altri due. Catz era iperattiva, tremava, come le succedeva sempre dopo un’esibizione. Quando cantava, dava tutta se stessa, febbrilmente.
— Hai sentito? — gli chiese poi.
Cole si protese sul banco, piantò i gomiti sul legno e il mento sulle mani e chiese: — E che razza di senso dovrebbe avere la roba che hai cantato?
— Credevo che all’università ti fossi specializzato in poesia, Stu — disse lei, prendendolo un po’ in giro.
— E allora? Io voglio sapere se posso assumere un tizio come buttafuori, e tu mi rispondi stanotte la città si è alzata, ha camminato, e fregnacce del genere.
— Hai ricevuto le visioni psi che ti ho trasmesso?
— Sì, ma non le ho capite bene.
— Be’, nemmeno io. Vuoi sapere se puoi fidarti di quel tizio? — Catz rise. — Un tizio, lo chiami. Fidarsi, dici. Cristo! Sì, potresti fidarti di quel tizio. Potrebbe farti da babysitter, se tu avessi dei figli, oppure potrebbe fare la guardia ai tuoi soldi, o buttare fuori i rompiscatole da qui. Se accettasse, stai sicuro che non ti fregherebbe. Solo che non accetterebbe. Non ha tempo per sciocchezze del genere. Ha le sue cose da fare, e solo una notte per farle… A ogni modo, non è una persona. Non capisci? È la città. Tutta intera. La città immersa nel sonno, che sogna e s’incarna in un corpo, fratello. Chiaro? È la Gestalt di questo posto, di questa fottuta città, racchiusa in un uomo solo. A volte il mondo prende la forma degli dei e gli dei prendono forma d’uomini. A volte. Questa volta… quell’uomo è un’intera città, e non sto parlando per metafora.