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Corsero via, sulla strada sempre più buia. Cole si fermò vicino a un ingresso della metropolitana rapida Zona Baia. Impaziente, Catz si tolse gli occhiali, gli lanciò un’occhiata interrogativa.

— Sta arrivando un treno diretto a sud — disse Cole, fissando di sottecchi il terreno.

Catz parve divertita. — E come fai a saperlo? Non hai mica consultato gli orari.

Cole provò un brivido. Come faceva a saperlo? Guardò l’angolo della strada. — Sta arrivando un autobus per Mission Street.

Catz seguì il suo sguardo. Due secondi dopo, da dietro l’angolo spuntò un autobus elettrico. Il cartello della destinazione diceva MISSIONI.

Catz lo guardò. Cole si sentiva strano. Freddo tutt’attorno al corpo. E non si sentiva più i piedi. Non poteva avere freddo sul serio, la serata era tiepida, però aveva i piedi intorpiditi. Come se si stessero fondendo nell’asfalto. Cole si mise a batterli finché un minimo di sensibilità non gli tornò nelle piante dei piedi. Poi, alzò gli occhi. — Adesso — disse — da dietro l’angolo sta arrivando un camion. E dietro c’è un nero su una Harley. — E un mastodontico camion giallo rombò accanto a loro, seguito a ruota da un nero su una motocicletta argentea.

Catz continuò a fissare Cole, orripilata.

Fu in quel momento che il telefono nella cabina accanto a loro squillò.

La porta della cabina, che era di quelle di vecchio tipo, si aprì. Il telefono cadde dalla forcella e si mise a oscillare, come in un gesto di richiamo. Meccanicamente, Cole s’avviò verso la cabina, per afferrare il ricevitore.

Catz balzò avanti, si frappose tra lui e la cabina, lo bloccò mettendogli le mani sul petto. — Non rispondergli. Lo sai che è lui. Non… non adesso. È lui, si sta risvegliando… e vuole farti diventare una parte di sé. Perché diavolo pensi di aver previsto quali veicoli sarebbero spuntati da dietro l’angolo? E la metropolitana?

Cole era intontito. Si mise a parlare da solo. — Tutti i macchinari di questo mondo sono collegati fra loro — mormorò, guardandosi attorno, comprendendo. — Da linee elettriche, cavi telefonici, da una gigantesca rete elettronica. Le tubature… — Chiuse gli occhi. E la vide, nell’oscurità infinita dietro gli occhi chiusi: una sovrapposizione luminosa, blu-bianca sullo sfondo del buio screziato: la grande infinita cianografia dei canali elettrico-neurali della città, gli edifici collegati fra loro e i punti focali, il nucleo della centrale per la produzione d’energia, il…

Riaprì gli occhi, stupefatto. Una sensazione strana sul viso. Capì che Catz lo aveva schiaffeggiato. Si lasciò guidare da lei all’ingresso della metropolitana. — Vieni — disse Catz. — Vieni. — Lei lo trascinava per la mano: lui la seguì passivamente, estraneo a se stesso, immerso in un sogno. Scesero fra luci vivissime e piastrelle bianche, immacolate. Con una carta di credito dell’Interfondo, Catz acquistò due biglietti dal computer alla parete e li mostrò, dalla parte delle strisce magnetiche, all’occhio elettronico del cancelletto. L’occhio li lasciò passare.

Ancora lontano dalla realtà, sognante, Cole si lasciò portare sul treno d’acciaio lucido. Le porte si chiusero automaticamente alle loro spalle. S’incamminarono sulla moquette pulitissima, sedettero sotto un grande finestrino. Gli altri passeggeri chiacchieravano tranquillamente o leggevano giornali. Trascorsa l’ora del rientro dagli uffici, c’erano appena una dozzina di persone sul treno diretto a sud.

Cole prese nota di quelle cose con attenzione ma con distacco, come se tutto ciò che aveva attorno, compresi i passeggeri e il treno stesso, fossero solo elementi minuscoli ma funzionali della grande macchina urbana.

Il continuum urbano della metropolitana si mise in azione. Il treno partì e, con una remota sensazione di piacere per il funzionamento perfetto della macchina che lo avviluppava, Cole si mise a contare le luci che esplodevano come lampi nel tunnel. E ascoltò il clic ritmico delle ruote, il sospiro della pressione dell’aria alle svolte…

Un poco più tardi, Cole si risvegliò improvvisamente dal sogno di cianografie interminabili e mappe complesse. Si guardò attorno, nervoso. Si sentiva solo e sperso, disorientato, e capì di essere ormai oltre la portata di Città.

Fu un sollievo scoprire accanto a sé Catz. La ragazza teneva le gambe sollevate, i talloni degli stivali sul sedile davanti, e fumava una sigaretta fatta a mano.

— Sul metrò non si dovrebbe fumare — disse Cole, con un sorriso.

Lei gli restituì un sorriso smorto. — Allora cosa vuoi farmi, porcone?

La mano di Cole scivolò su quella della ragazza. La pelle di Catz era calda e umida, sembrava aderire alla sua.

Lui avvertiva ancora una leggera sensazione di freddo. — Dove… dove stiamo andando?

— Questo è il treno in direzione sud di cui parlavi tu, baby. È quello che passa nel nuovo tunnel sotto le colline di Berkeley, lo sapevi? È una linea che funziona solo da un mese. Arriva fin quasi a San José. È un viaggio lungo, però… Città non può arrivare così lontano, penso.

Cole annuì. — Mi sono sentito scivolare via da Città. Mi sorprende che non abbia fermato il treno. Forse per fermarlo avrebbe dovuto ucciderci. Forse…

Lei scosse la testa. — No. Poteva bloccarci alle fermate regolari. Bastava che impedisse al treno di ripartire. Ma può esserci un altro motivo. Per esempio, fose sa… — Catz lo guardò con la coda dell’occhio — che tu tornerai.

Cole respirò profondamente. — Mi sento strano.

— Una crisi d’astinenza.

— Cosa?

— Niente… Ehi, quando hai avuto quelle precognizioni sul traffico e tutto il resto, c’era di mezzo quel tuo duplicato? Quell’immagine che hai visto a Oakland? È stata l’immagine a darti le informazioni?

Cole scosse la testa, fissando le luci del tunnel. Il mormorio del treno era calmo, regolare. — No, non credo. È stato come se stessi guardando attraverso gli occhi di qualcun altro. Oppure come vedere dietro un angolo col periscopio. Una ripresa televisiva dall’alto. Non è che vedessi avanti nel tempo… Era come se gli edifici fossero diventati quasi… trasparenti.

— Queste balle non me le bevo…

— Non ti sto raccontando bugie…

— No, questo lo so. Ti credo. Voglio dire che la situazione è molto brutta. Si è proprio impadronito di te…

Cole cambiò immediatamente argomento. — Ma cosa credi che fosse quella cosa che ho visto? Quel “duplicato”?

— Non lo so — rispose lei, depressa. La sigaretta si era spenta. La riaccese, scrutò con una smorfia le tracce di rossetto nero sulla cartina bianca. — Forse era, uh, una proiezione di te stesso, delle tue doti latenti. Le tue intuizioni proiettate in una specie di visione.

L’idea non gli pareva esatta. — Uh-uh. Però… Più che altro sembrava uno spettro.

Catz rise nervosamente. — Be’, è impossibile. Tu non sei morto, fratello.

— No — disse Cole. Ma pensò: “Non sono ancora morto. Forse lo sarò presto. Molto presto”.

Aveva ragione.

— Non so — disse Cole, rigidamente seduto sull’orlo del letto che cigolava. — Forse dovrei tornare. Devo andare fino in fondo a questa faccenda. Gli ho obbedito dal primo momento, ed è un po’ come se mi fossi… be’, impegnato. Mi sento solo, lontano dalla città. Gesù, sono anni che non me ne allontano. Non…

— Già, hai paura di startene lontano dal tuo paparino — disse Catz. — Ma c’è anche qualcos’altro.

Si chinò su di lui, intrecciò le dita nei suoi capelli, disse dolcemente: — Tu, fratello, sei nervoso per qualcos’altro.

Cole, involontariamente, si ritrasse da lei. Gli arrivava alle narici l’odore del suo sudore, l’aroma del suo corpo. Ne era intossicato. Ma sentiva la schiena fredda e rigida. — Senti, perché siamo venuti qui? — Allargando le braccia, indicò la stanza del vecchio hotel Santa Cruz. L’aria sapeva vagamente di muffa e salmastro. La tappezzeria ingiallita si staccava dalle pareti, era ammuffita negli angoli. Il letto di ottone, un relitto, cigolava a ogni minimo movimento. — Forse per te è meglio stare lontana da San Francisco. Ma non per me. Io non dovrei essere qui. Ho un club da mandare avanti, Catz.