— No. Riuscirò a raggiungere più gente. Insegnerò il non conformismo…
— Ti creeranno una bella immagine stereotipata e stamperanno migliaia di poster con la tua faccia… Lanceranno la Moda Catz Wailen. Sono sicuro che funzionerà.
— Tieniti il sarcasmo sul tuo conto. Non accetto pagamenti del genere. — Catz tremava. — Merda — disse piano.
Poi andò in bagno e aprì il rubinetto del lavandino, perché lui non la sentisse piangere.
Pomeriggio tardi. L’alba del tramonto. Come preludio, il cielo che oscurava i margini frastagliati di nubi gonfie.
Solo nell’aeroporto di San José, Cole restò a guardare il jet di Catz, diretto a Chicago, che accelerava a dispetto della pressione dell’aria, che si alzava in cielo. (No, Cole non era veramente solo; ma la gente che aveva attorno non era una semplice folla di estranei: cosa più importante, non erano di San Francisco. Non erano della città di Cole. Alieni.)
Le dita, affondate nella tasca della giacca, tormentavano il foglio che lei gli aveva lasciato. C’era scarabocchiato sopra il numero di telefono di Chicago… Con Catz era partito tutto il gruppo. Il bassista, un tipo con la faccia da topo, aveva protestato: aveva pagato l’affitto dell’appartamento per tutto il mese successivo. Non gli avrebbero rimborsato una lira. A Catz non era stato difficile convincerlo a lasciare la chiave a Cole.
Poteva darsi che lei avesse torto. Forse non avevano estinto il suo conto corrente. Forse possedeva ancora il club.
— Che Dio me la mandi buona — disse lui, ad alta voce.
Il jet venne assorbito dal banco di nubi più basso. Le nuvole incombevano sull’aeroporto come demoni giganteschi e mostruosi. Catz non c’era più.
Catz era partita e lui si trovava a San José, lontano da Città. Si guardò attorno: estranei, folle di estranei. Era completamente solo.
Soffocando il panico, si girò, corse verso la scala mobile con la scritta USCITA SULLA STRADA. STAZIONE DELLA METROPOLITANA.
Cole guardò lo schermo del Tif nella cabina pubblica con una certa soddisfazione, CONTO CORRENTE ESTINTO, diceva. Non semplicemente CONTO CORRENTE MOMENTANEAMENTE CONGELATO CAUSA MANCATI PAGAMENTI. Non solo SEQUESTRO CAUTELATIVO DEI FONDI DEPOSITATI. Non per lui. Per Stuart Cole, l’anatema usato così di rado: CONTO CORRENTE ESTINTO.
In genere, quella formula la usavano con la gente che finiva in galera.
— Aveva ragione Catz — disse lui, spingendo da parte la porta a soffietto e uscendo in strada. Si fermò all’angolo tra Market e Sutter, all’ombra del tendone di un cinema di “erotismo terapeutico”. L’insegna, spenta, diceva: TERAPIA SOMMINISTRATA DURANTE LE PROIEZIONI/POLTRONE COMPLETAMENTE EQUIPAGGIATE/TERAPEUTI DIPLOMATI. — Diplomati come un asino di Tijuana — borbottò Cole, incamminandosi.
CONTO CORRENTE ESTINTO… Cominciava a risentire dell’impatto di ciò che era accaduto.
Scese lentamente lungo la strada. Ogni passo gli portava una fitta al petto. Il dolore che lo consumava era la pena di essere respinto da un’intera società.
— Perché la gente come me non l’infettano con la lebbra e la spediscono su un atollo deserto? — si chiese a voce alta.
Oltrepassò un relitto umano che russava sotto un portone invaso dalla sera. “Persino gli ubriaconi” pensò Cole “hanno un conto corrente. O per lo meno un numero di assistenza sociale, una licenza d’accattonaggio, un assegno d’invalidità. Io no. Ormai sono al di sotto anche di queste cose.”
Raggiunse una cabina telefonica e si mise ad aspettare, fissandola. Non restò deluso: il telefono si mise a squillare. — Città? — rispose, accorgendosi che un po’ del dolore se ne andava.
— Benny? — disse la voce di un portoricano, all’altro capo del filo. — Hai la roba?
Bestemmiando con tanta rabbia da non capire neppure quali parole stesse usando, Cole sbatté giù il telefono e si allontanò. — Città… — disse. Era quasi un gemito. Si guardò attorno, e le spirali della paura si avvolsero sulla pena di essere respinto.
Città era lontano da lui. Cole si sentì isolato, escluso dal solito rapporto con l’ambiente urbano.
Città lo stava punendo.
“Forse per me è finita. Forse ha trovato qualcun altro, qualcuno migliore di me per questo lavoro. Mi ha abbandonato per sempre.”
Un tram scese rombando lungo la collina alla sua sinistra. Oscillava, faceva nascere scintille dai cavi in alto. Rallentò, si fermò, fece scendere i passeggeri. Poi riprese velocità, corse verso di lui. Era lontano una ventina di metri. Gli sarebbe stato difficile fermarsi in tempo in discesa. Era l’unico modo per sapere, per scoprire come la pensava Città. Cole corse in strada, e un sudore freddo gli inondò la fronte. Aveva paura. Sì, molta. Paura di morire. Ma meglio essere morto che sentirsi escluso, intrappolato come un animale da laboratorio in un vaso di vetro. Si gettò a terra davanti al tram, strinse forte gli occhi, cercò di allontanare lo stridio delle ruote che frenavano coprendosi le orecchie con le mani. I passeggeri urlarono. Cole fiutò l’ozono del motore elettrico del tram. Sotto le sue braccia, l’asfalto tremò all’avvicinarsi delle ruote. L’ombra del veicolo gli fu sopra, metafora della morte.
Poi la strada esplose.
Mentre Cole veniva scaraventato lungo la discesa, rotolando verso destra, intravide una tubatura enorme che schizzava fuori dall’asfalto, frapponendosi tra lui e il tram. Il veicolo andò a sbattere contro la tubatura, deviò di lato. Le ruote posteriori uscirono dai binari. Cole riuscì a fermarsi, smise di rotolare.
Stringendo i denti per il male, appoggiandosi sulle ginocchia sbucciate, si rizzò in piedi. Il tram era uscito dai binari, bloccava di traverso la strada, ma non si era capovolto. Non c’erano feriti gravi. Qualcuno correva verso di lui, e sembrava quasi che i loro visi furibondi precedessero i corpi; altri, pietrificati, fissavano la tubatura delle dimensioni di un uomo che aveva fermato il tram due secondi prima che Cole finisse maciullato.
— Ehi, ehi, ma che madonna di… — urlò l’autista, piombando su Cole.
Alle spalle di Cole, sulla corsia opposta, arrivò un taxi, eseguì una conversione a U, gli giunse a fianco. La portiera dal lato del passeggero si spalancò, invitante. Cole balzò su e il taxi ripartì. Boccheggiando, si accomodò sul sedile anteriore.
Non c’era autista.
— Città… — disse dolcemente Cole. In bocca aveva il sapore salato di lacrime assurde.
Il taxi senza autista continuò la sua corsa. “Dove mi sta portando?” si chiese Cole. Due isolati, e la macchina si fermò. Cole si girò a scrutare il condominio del quartiere Tenderloin che aveva davanti: alto, stretto, di un giallo lurido. Ellis Street rigurgitava di sconosciuti, ma lui non era più solo. Chiudendo gli occhi, sentiva un elicottero decollare dal tetto di un palazzo, sei isolati più a sud. Nel buio dietro le palpebre vedeva le macchine dei pendolari sulle superstrade nord e sud: ogni auto seguiva un ritmo precisissimo, si teneva a una certa distanza dal veicolo che la precedeva, e tutte avevano la stessa velocità; come se tutte quelle macchine, anziché essere guidate da individui indipendenti e capricciosi, seguissero un’unica corrente invisibile. Come se, di nuovo, le automobili fossero cellule sanguigne trasportate dal flusso del sangue. E sentiva i treni del metrò che gli passavano sotto i piedi, le tubature che gorgogliavano e sussurravano lungo i tunnel della metropolitana; lo scintillio enorme dell’energia elettrica nella migliaia di chilometri di cavi; avvertiva il lezzo dei torrenti delle fogne e l’odore repellente dei gas di scarico di migliaia di motori, mischiati al fetore dei vapori di migliaia di fornelli su cui cuoceva cibo. Per Cole, erano profumi sopraffini.
Aprì gli occhi, scese dal taxi.