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— No — disse Cole.

— Cosa? — chiese l’uomo, stupito. Gli tremava la bocca.

— Niente. Ci sono altre guardie, qui dentro?

— Sei. Quasi tutte al piano di sopra, in turno di riposo.

Sei! Città aveva scelto il momento perfetto. — Sdraiati a terra — ordinò Cole.

L’uomo obbedì lentamente. “Quando esploderà la bomba, morirà gente” pensò Cole; poi oltrepassò la guardia, si chinò per sistemare il congegno contro un pannello di cromo. Esitò. La sua mano sinistra tremava sulla manopola.

Esitò… E qualcosa lo colpì da dietro. Ancora una volta, si era fidato troppo di se stesso. Si trovò schiacciato a viso in giù, sotto la guardia. Le dita che stringevano la pistola erano serrate dalla mano dell’altro, che con tutta la sua forza, con tutto il suo peso, con tutta la sua rabbia gli premeva sulla schiena. La guardia tentava di non far muovere Cole, si strappargli l’arma. Freneticamente, Cole premette due volte il grilletto. I colpi spaventarono la guardia, la sua stretta si allentò, e Cole colse l’occasione per liberarsi. Pistola alla mano, balzò in piedi. Si girò, oltrepassò di corsa la porta, si lanciò nel corridoio. Alle sue spalle, urla. Le esplosioni avevano attirato altre guardie; Città avrebbe chiuso la porta d’acciaio, fermando qualcuno degli uomini. Boccheggiante, col sapore del ferro in bocca, i polmoni in fiamme, Cole divorò il corridoio, aggirò angoli al volo. Odiava l’eco dei suoi piedi in corsa.

Lontane, sopra di lui, ululavano sirene.

Svoltò a sinistra, percorse un corridoio, girò a destra. Non capiva più di preciso dove stesse andando. Gli si spalancò davanti una porta. Superò la soglia, fu nell’altra stanza, divorò scalini di cemento. Si trovò nel locale delle caldaie, immediatamente al di sotto del livello stradale. Oltrepassò tubature e condotti rivestiti di gomma, incontrò una scala di metallo, la risalì con molta difficoltà, impacciato dalla pistola. Protese la sinistra verso la ruota che costituiva la serratura di un tombino. Il tombino gli cedette, si aprì con troppa facilità: l’assistenza di Città. Piombò nel buio della notte, fu felice di respirare l’aria fresca, libera. Si trovava in un vicolo dietro l’edificio di granito. Sulla strada lampeggiavano luci, ululavano sirene che seguivano la corsa di fantasmi volanti; urla giungevano da dietro l’angolo. Un paio di fari illuminò, orrendo, il vicolo. L’automobile riempì tutto lo spazio disponibile, si lanciò alla carica contro di lui. Terrorizzato, bestemmiando, cercò un rifugio. Ricerca inutile. La macchina, un’omhra nera sommersa dalla luce dei fari, gli corse incontro. Cole si appiattì contro il muro. L’auto si fermò a una trentina di centimetri da lui. Le luci si spensero. Era solo un taxi vuoto con una portiera spalancata. — Oh, Dio, grazie — sussurrò Cole, e confuso, stanchissimo, andò a sedersi dietro il volante. Era il posto migliore, se no qualcuno si sarebbe accorto che il taxi era senza autista. La portiera si chiuse, la retromarcia si inserì da sola, i fari si accesero, il volante si mise a girare: la macchina indietreggiò lungo il vicolo, arrivò in strada.

Svoltarono a destra. “Andiamo troppo forte” pensò Cole. “A questa velocità è impossibile che non ci notino.” Due macchine della polizia si lanciarono all’inseguimento quasi immediatamente. Il taxi accelerò, passò a un semaforo rosso (sia Cole sia Città sapevano che nessuno stava sopraggiungendo all’incrocio), schizzò via nel viale quasi deserto. Le luci lo sfioravano come meteore, seguite da pozzi d’ombra: luce/buio/luce/buio/yin/yang/yin/yang/luce/buio; e nello specchietto retrovisore, occhi rossi, demoniaci, le luci rotanti delle due macchine della polizia che lo inseguivano fianco a fianco. La voce di Città dalla radio: — Non hai ucciso la guardia e non hai innescato la bomba.

— Te l’avevo detto che non sono un agente segreto — ribatté Cole, ferito dall’accusa implicita di tradimento.

Le auto della polizia guadagnavano terreno. Una terza macchina proveniente da una strada laterale si unì alle prime due. Tra un po’ lo avrebbero costretto a fermarsi.

Intervenne Città. Le auto che lo seguivano rallentarono, quasi si fermarono, cominciarono a tracciare sulla strada assurdi otto, una dietro la coda dell’altra. Giravano e giravano e giravano. Guardandole nello specchietto retrovisore, Cole si mise a ridere. Come l’avrebbero spiegato nei loro rapporti? — Le macchine avevano voglia di ballare, signore — scimmiottò Cole, fissando la scena alle sue spalle, sempre più lontana.

Poi il taxi frenò di colpo. Cole venne scaraventato in avanti, si aggrappò al volante, evitò per un pelo di sbattere la testa. Davanti a lui, due auto della polizia bloccavano la strada, e dai megafoni qualcuno urlava: — Fermo lì dove sei…

La voce amplificata fu sostituita dalla disco music che adesso usciva dai megafoni. Le due macchine cominciarono a rincorrersi testa/coda, tracciando una serie infinita di otto. La canzone che i megafoni diffondevano era un successo dell’anno precedente:

Vieni, baby, giriamo qua e là Vieni, baby, per tutta la città Vieni, baby, giriamo qua e là…

Cole, continuando a ridere, lasciò che il taxi svoltasse l’angolo. A una velocità meno frenetica, il taxi lo riportò all’appartamento nel quartiere di Tenderloin.

La risata di Cole conteneva più di un briciolo d’isterismo.

ESSETTEEEE!

Cole sedeva al buio, sulla sommità della città; sedeva in mezzo ai rifiuti, e davanti a lui, sotto la grande finestra panoramica, si stendeva il tappeto delle luci notturne della città. Alla sua destra: uno schermo televisivo con l’audio abbassato, che teneva sempre acceso. Alla sua sinistra: una bottiglia di birra mezza vuota e un sigaro fumato a metà, la cui brace aveva da tempo smesso di ardere. Sul suo grembo: la pistola.

Città lo aveva fatto traslocare nell’appartamento all’ultimo piano di Rackham Arms, vuoto, per meglio sottrarlo alle ricerche della polizia e dei vigi. Era chiaro che avrebbero frugato in ogni posto anche lontanamente in rapporto con Catz Wailen. L’inquilino dell’appartamento era fuori città per l’estate; nessuno aveva fatto domande a Cole, dato che l’inquilino lasciava spesso l’appartamento agli amici. La scorta di cibo e di bevande era abbondantissima: il surgelatore rigurgitava di carne, gli armadietti erano pieni di scatolette. Cole, di fronte a quei mobili lussuosi, al tocco inconfondibile di un arredatore, aveva immediatamente disprezzato lo sconosciuto che viveva lì. Non aveva rispetto per chi non era in grado di decorare da solo la propria casa. Quindi, aveva deciso di trascurare completamente la pulizia, accumulando lattine vuote e cellophane e bottiglie e piatti in ogni angolo del lussuoso appartamento.

Dopo avergli trovato una casa, la presenza di Città era svanita. Cole era solo. Intuiva vagamente la supermente urbana, come una serie di scariche che escano dalla radio; ma non c’era nulla di preciso. Ormai aspettava da tre giorni, senza mai uscire. Aspettava di sentire Città. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata al televisore, sperando di vedere il viso di Città. Ma ormai era sabato, e lui non si era ancora fatto vivo. Gli avvenimenti dell’ultima settimana erano come un sogno nella memoria di Cole. Cominciò a dubitare della realtà del mondo al di là del vetro, il vetro che formava un’intera parete dell’appartamento. Di giorno dormiva; di notte stava sveglio ad attendere.

— Mi sono alzato ad aspettare — si ripeté Cole. — Stupido. Stupido. — Sedeva a gambe incrociate sul tappeto, davanti alla parete di vetro; la stanza era buia, a parte il riverbero azzurrino, mobile, dello schermo televisivo. Il televisore era a colori, ma Cole lo aveva messo sul bianco e nero: i colori lo distraevano, gli facevano sentire l’impazienza di uscire nel mondo. Ormai lui esisteva in un crepuscolo d’attesa.