I suoi pensieri tornavano, con frequenza preoccupante, a Catz.
Aveva chiamato il numero di Chicago che lei gli aveva lasciato. Non era mai in casa. Una volta gli aveva risposto una voce maschile, insonnolita: — Eeh? Oh, è fuori a suonare. Chi parla?
Nel tono dell’uomo c’era una punta di gelosia, il che significava che Cole aveva motivo di essere geloso.
Lanciò un’occhiata al televisore. Jeromey Jeremy, il conduttore del programma Quattro chiacchiere con l’ermafrodito, stava carezzando con una mano una stellina voguer, e con l’altra carezzava il proprio seno. Cole sbadigliò. — Forse — disse alle luci della città — Città mi sta di nuovo punendo. Perché non ho sparato a quella guardia quando lui me l’ha ordinato, il che ha reso impossibile innescare la bomba. Forse lo fa apposta a farmi stare così male. Forse mi ha abbandonato… Ma allora, perché mi avrebbe trasferito qui?
— Già, perché? — chiese la voce di Città dallo schermo.
Cole alzò gli occhi. Il viso di Città riempiva lo schermo. Un’allucinazione da privazione sensoriale? Si morse un dito, e il dolore gli parve molto reale.
Se esiste qualcosa di indiscutibilmente reale, quello è il dolore.
Allora Città era lì con lui, e Cole crollò, improvvisamente stanchissimo. Si accorse che, nelle ore di veglia di quei tre giorni, l’attesa lo aveva tenuto in uno stato di continua tensione.
Si alzò barcollando, batté i palmi delle mani sulle gambe per ristabilire la circolazione del sangue. Raggiunse il televisore, vi restò davanti per un attimo, fissando con un misto di venerazione e risentimento il volto della città; poi si accucciò a fianco dell’apparecchio: non resisteva all’idea di fissare così da vicino Città. “Sono suo” pensò. “Catz aveva ragione.”
— Al Chronicle c’è un tizio. Scrive articoli, a volte fa qualche inchiesta — disse Città. — Si chiama Barnes. Rudolph Barnes.
Cole si aggrappava disperatamente a ogni sillaba di Città, cercava un’inflessione, una punta di approvazione o disapprovazione. La voce di Città era fredda, ma non più del solito. Cole non poteva essere sicuro di nulla.
Città proseguì: — Barnes sa di Rufe Roscoe e dei vigi. Sa anche qualcosa di te. Sa che ti cercano. Sa dei rapporti tra la mafia e il Tif, anche se la cosa non è più un segreto. Comunque ha intenzione di preparare un grosso servizio per una rete televisiva nazionale. Voglio che tu lo veda, che gli telefoni, che vi mettiate d’accordo per incontrarvi. Fa’ attenzione, perché dovrete vedervi domani, di giorno. Barnes riparte da qui domani pomeriggio. Adesso si trova a Santa Cruz, se no vi avrei già messo in contatto. Tornerà a San Francisco domani mattina e ripartirà nel pomeriggio. Avrai a disposizione solo poche ore. Trovalo, raccontagli dei videonastri di Rufe Roscoe e di tutte le altre cose che sai… Parlagli di tutto, tranne che di me. Sarebbe difficile convincerlo, e non voglio manifestarmi a lui. Non esiste un rapporto fra Barnes e me. Non è cittadino di San Francisco…
A Cole parve di leggere disprezzo nel tono di Città.
— …è di New York, ed è fedele alla sua città. Ma trovalo lo stesso, ci aiuterà. Chiama il Chronicle domattina alle nove. E adesso vai a dormire.
— Cit…
Ma il viso era svanito.
Era svanito; però si era manifestato, gli aveva parlato. Stuart Cole pianse di sollievo.
Persino sullo schermo in bianco e nero del telefono pubblico Cole vedeva benissimo che Barnes era un tipo dal viso florido e roseo, con l’aria triste, quasi senza mento, con un naso tozzo e butterato. Però gli occhi erano vivaci, penetranti, e dietro quei suoi pochi capelli, dietro l’aspetto irritato dell’uomo di mezza età, vibrava del talento. Era il tipo adatto per loro.
— Sì? Allora? — chiese Barnes, con voce stridula.
Cole trasse un profondo respiro e rispose d’un fiato: — Sono Cole. Stuart Cole. So che cercate informazioni sul Tif e su Rufe Roscoe, e io so un sacco di cose di questa faccenda.
— Sentite, amico, è domenica — ribatté Barnes, esageratamente irritato. — E io cerco sempre di non lavorare mai, la domenica. Sono qui per una riunione veloce, dopo di che prenderò l’aereo…
— Okay, okay, basta con le provocazioni — disse Cole. — Non ho tempo. — Era chiaro che Barnes si dimostrava seccato solo per saggiare le sue reazioni, per scoprire se Cole era un impostore o no. — Sono chi dico di essere e non mi scoraggio facilmente.
Si mosse volutamente mentre, fissando lo schermo, Barnes lo studiava, lo soppesava senza reticenze. Cole aveva i capelli tagliati secondo una foggia molto tradizionale; nell’armadio dell’appartamento aveva trovato un abito perfettamente serio, portava occhiali con le lenti azzurre. Sarebbe stato perfetto in mezzo a qualsiasi folla. Eppure, era nervoso. Si trovava in una cabina pubblica di Chinatown, e i poliziotti di servizio passavano a intervalli regolari. Un poliziotto particolarmente in gamba, o che magari avesse appena visto la sua foto su un bollettino segnaletico, poteva riconoscerlo da un minuto all’altro.
— Sembrate proprio Cole — disse Barnes.
Cole restò stupefatto. — Avete visto mie fotografie?
— Sicuro. Ci arrivano tutti i bollettini della polizia. Vi ricercano come disperati, amico. Comunque, d’accordo. Datemi le informazioni che dite di avere, e per quanto mi riguarda il vostro conto corrente tornerà come nuovo. Vi faranno credito persino a Fort Knox.
— A Broadway — disse Cole — c’è un ristorante. Da Luigi.
Barnes annuì. — Tra quanto?
— Al più presto possibile. Terrò d’occhio il posto, e se mi sembrerà che non ci sia pericolo entrerò quando vi vedrò arrivare. Non portate niente che possa attirare l’attenzione.
— Okay. Però non pensate che dovrei…
— Chiamare la polizia?
— No. — Barnes sorrise, scoprendo una dentatura irregolare. — No, volevo dire che dovrei portare qualcosa che possa servirmi come prova per l’articolo. Un videoregistratore portatile?
— No. Ci faremmo notare. Quando ci vedremo, ve lo dirò io dove potrete trovare le prove. — Cole interruppe la comunicazione. Lo schermo si spense. Uscì alla luce vivida del sole, strizzando gli occhi. Si era abituato a vivere di notte; il sole gli bruciava gli occhi, li faceva lacrimare. Sbadigliò. Non aveva dormito abbastanza. S’incamminò su per la collina, cercando di darsi l’aria dell’uomo d’affari in cerca di un ristorante cinese.
Camminò in salita tra la folla massiccia del mezzogiorno di domenica, perso in un flusso di turisti lento come la lava. Sulla sinistra, una parata di camicette senza maniche e occhiali da sole; sulla destra, le auto che rombavano, che riempivano l’aria coi clacson. L’aria calda sapeva di sudore, dopobarba, svariati profumi e deodoranti, pesce, e aromi di strane spezie dai negozi di gastronomia cinese. Venditori ambulanti offrivano souvenir e gelati, ripetendo all’infinito la nenia di ogni giorno d’estate a Chinatown: — Un bel gelato fresco!
Sudato, oppresso dal vestito troppo pesante, raggiunse Broadway e si fermò, con un sospiro, all’ombra di un tendone di fronte al ristorante Da Luigi. Le spalle rivolte a una rosticceria, scrutava con finta indifferenza la folla di persone che passavano in un senso e nell’altro sul marciapiedi. Vedeva la porta d’ingresso del ristorante, ma aveva il sole alle spalle, e la luce rendeva bianchissima, impenetrabile, la vetrina. Comunque, Barnes non poteva essere già arrivato.
Lontano dalla corrente della folla, si sentiva esposto, troppo visibile. Fermo in piedi, si strusciava le mani sui pantaloni. Era nervoso e spaventato, e se ne accorse, e divenne ancora più nervoso e spaventato per il timore di attrarre chissà quali sospetti. La sua tensione interna saliva paurosamente. Dovette impedirsi parecchie volte di girarsi a guardare dietro le spalle.