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Cole scosse la testa, rassegnato. — Siete condannato. Hanno scoperto i vostri rapporti con me. Mi odiano.

— Senti un po’, amico… — attaccò l’autista, furibondo; ma s’interruppe, restò a guardare dal finestrino posteriore, oltre i due passeggeri. — Chi cazzo sono quegli elementi lì? Ehi, quei bastardi hanno la pistola!

Barnes si gettò sul pavimento del taxi. La mano di Cole corse alla sua pistola. La estrasse e restò a fissarla, chiedendosi se sarebbe stato capace di usarla un’altra volta. Si guardò attorno, disperatamente. Era un banale viale alberato; alti palazzi condominiali, alcuni con le facciate coperte d’edera, sorgevano sui due lati della via. A una finestra c’era un uomo che li guardava; quando il suo sguardo incrociò quello di Cole, tirò le tende. I tre uomini erano forse una decina di metri dietro il taxi, e due cominciavano a correre; l’uomo che si lasciarono alle spalle li seguiva zoppicando appoggiandosi a un bastone. Erano tutti e tre armati.

Conscio che non sarebbe stato capace di usare di nuovo la pistola, Cole la puntò alla testa dell’autista, che aveva gli occhi strabuzzati e sudava, e urlò: — Scendi e taglia la corda!

Il nero obbedì. Scese, gridando: — Vi venga un accidente, figli di puttana senza un centesimo! — Cole balzò sul sedile anteriore, dietro il volante, gettò la pistola sul sedile e mise in marcia. Schiacciando l’acceleratore, fece compiere all’auto un’inversione a U, stringendo i denti sotto la pressione della forza centrifuga, e si gettò contro i tre uomini che adesso si trovavano a tre o quattro metri dal cofano. Uno si lanciò di lato, un altro alzò quella che sembrava una Luger per sparare direttamente al parabrezza. Cole chiuse gli occhi sulla fiammata e sul vetro che andava in frantumi; qualcosa lo colpì alla guancia. Premette fino in fondo l’acceleratore, senza riaprire gli occhi. Due tonfi sulla macchina, le ruote che passavano sopra qualcosa di molle; un altro sparo di lato. Cole sentì il finestrino posteriore sinistro esplodere, udì un gemito dal sedile alle sue spalle. Aprì gli occhi in tempo per vedere l’auto della polizia che si sistemava di traverso sulla strada. Senza riflettere, sterzò sulla destra; qualcuno schizzò via dal marciapiedi; ci fu un colpo spaventoso quando l’auto, sobbalzando, salì sul marciapiedi. Continuando a guidare con le due ruote di destra sul marciapiedi, aggirò la coda della macchina della polizia che bloccava la strada e svoltò l’angolo. Da diverse direzioni cominciarono a ululare sirene…

“Le sirene sono la musica di sottofondo della mia vita” pensò Cole.

La strada correva via a una velocità folle; le auto sulla corsia di sinistra facevano strillare i clacson; le macchine che aveva davanti deviavano a destra e a sinistra, per evitare il veicolo impazzito. Cole teneva il clacson premuto, per avvertire tutti di togliersi di mezzo. Dall’autoradio del taxi uscivano scariche elettriche e un misto di voci. Guidando con una sola mano sul volante, sperando nella buona sorte ogni volta che superava uno stop, Cole ebbe un’idea. Protese la destra verso il microfono dell’autoradio, premette un pulsante e urlò: — Città! Non puoi intervenire materialmente, però riesci a parlarmi! Parla con loro! Non puoi passare informazioni sbagliate alla polizia? Levameli di torno! Fregali! Fa’ finta di essere un operatore della Centrale!

— Sì… — gli rispose una voce familiare, frammista ai messaggi confusi che uscivano dall’autoradio.

E poco dopo l’ululato delle sirene svanì. L’aria che entrava dal parabrezza distrutto lo schiaffeggiava in viso; ai suoi piedi, frammenti di vetro tintinnavano. Cole raggiunse una stazione della metropolitana. Accostò, spense il motore, si appoggiò all’indietro sul sedile, col fiatone, tremante. Il suo corpo era pieno d’adrenalina. Avvertì un capogiro, passò subito. Si ricordò di Barnes. Rise, nervosissimo. — Ehi, ehi, Barnes… Gesù se avevo paura… Però ho guidato da campione, no? Cristo, uno non sa mai di cosa sia capace finché…

S’interruppe. Gli era tornato in mente il colpo che aveva distrutto in finestrino posteriore. E il gemito che aveva udito. Cole non si girò. Semplicemente, non riusciva a costringersi a guardare. — Barnes? — disse, con voce spezzata. — Oh, Dio, mi dispiace. Mi dispiace, Barnes.

Alla fine dovette guardare, perché da un momento all’altro qualcuno poteva lanciare un’occhiata in macchina e vedere il corpo sul sedile posteriore. Il taxi si trovava in un vicolo dietro alla stazione. Ma anche lì poteva passare qualcuno. E forse Barnes aveva bisogno di entrare in ospedale.

Cole si girò a guardare.

La testa di Barnes era spappolata, non esisteva più.

La cosa che lo spaventò maggiormente fu che lo spettacolo della morte violenta non lo faceva più stare male.

Scese dal taxi e s’incamminò, distrutto, esausto, verso la metropolitana.

Cole lasciò che il telefono all’altro capo del filo continuasse a squillare, anche se aveva già squillato almeno trenta volte.

Un clic, una voce insonnolita. — Sì?

Il cuore di Cole sobbalzò. — Oh… Uh… Catz?

— Stu?

— Sì… Perché non accendi lo schermo?

— Oh, uhm… Il video è rotto. Questo telefono sta andando a pezzi.

— Tu mi vedi?

— No…

Cole si chiese se lei non accendesse il video semplicemente per non mostrargli l’uomo che stava nel suo letto.

— Allora, cosa succede? — chiese Catz.

Cole rise senza nessuna allegria. — Non so proprio da dove cominciare. Ehi, mettiti l’auricolare.

— Okay.

Allora era con qualcuno. Se no, gli avrebbe risposto che l’auricolare era inutile. “Non sono affari miei.”

Parlando meccanicamente, in fretta, Cole le raccontò quanto era accaduto da che lei era partita.

Quando ebbe terminato, gli rispose il silenzio.

Alla fine, fu lui a dire: — Be’, e a Chicago come va?

Quando Catz riprese a parlare, lui capì che stava piangendo. — Ti venga un accidente, Stu. Sei chiuso in una gabbia di matti. Adesso metti sotto la gente con la macchina, e ovunque vai ci sono sparatorie, e lui ti ha convinto a mettere bombe che non sai nemmeno cosa faranno. Mi dai la nausea, uomo.

— Sei soltanto irritata — ribatté immediatamente Cole — perché ti ho svegliata alle quattro di notte. Lì da te sono le quattro, no?

— Accidenti a te, Stu.

Nella pausa che seguì, la linea telefonica emise un sibilo.

Finché Cole non disse, travolto dall’amarezza: — Catz, ho una paura fottuta. Ma non posso andarmene. Ho bisogno di te. Ti prego…

— No. Vattene da lì. Lascialo. Ti sta usando. Non voglio che tu perda anche l’ultima briciola di te stesso… È ovvio, no? Insomma, Città ha paura che il concentramento urbano si spezzi, che la gente si sparga per tutta la nazione quando i terminali multipli e il Tif renderanno superato lo stato di cose attuale. Sa che le città sono superate. La faccenda del crimine organizzato gli serve come scusa, ma farebbe esattamente le stesse cose anche se tutto fosse legale. È arrivato il momento che le città muoiano, Stu, e tu devi andartene, uomo, prima di esserne travolto.

— Non posso e non voglio! — urlò Cole, in un sussulto di rabbia. — Ho bisogno di te, ma ho bisogno… — S’interruppe. Un suono strano… il segnale di libero.

OTTTTTO!

L’appartamento puzzava, ingombro com’era di vestiti sporchi, contenitori di cibo e lattine vuote; perversamente, Cole era felice del fetore. Nel suo stato d’animo, ogni ulteriore dato negativo era il benvenuto.

Grazie a Dio, era sera.

Aveva trascorso tre giorni senza dormire un minuto. Era la sera di mercoledì, e lui aveva atteso impaziente che la giornata finisse; non si sentiva più a suo agio quando Città non c’era…