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Cole scrollò le spalle, annuì. L’uomo gli diede tre trilithum, che Cole sistemò nella scatoletta di plastica del suo ultimo sigaro. Poi tornò indietro, raggiunse il distributore d’acqua, ingoiò tutt’e tre le pillole. Sdraiato sulla cuccetta, si mise a pensare: “Come farò ad arrivare dalla stazione al palazzo della magistratura? Non ho i mezzi per pagare un taxi”.

Restò lì sdraiato, affondato in una deliziosa nebbia di stordimento.

Arrivato, scoprì che dalla stazione si poteva giungere a piedi al palazzo della magistratura, distante poco più d’un chilometro. Insonnolito, andando ogni tanto a sbattere contro le persone, Cole percorse la strada avvolto in una foschia d’intorpidimento. La valigetta penzolava, appena trattenuta da dita molli. Scrutando ripetutamente le targhe delle vie, poi il foglio con l’indirizzo che stringeva nel palmo sudato, raggiunse lentamente il complesso di edifici che ospitavano gli uffici statali.

Come un sonnambulo, Cole per poco non precipitò a terra nell’ufficio della segretaria del viceprocuratore distrettuale. La segretaria lo scrutò da cima a piedi con espressione sdegnata. Cole le sorrise (sperava che fosse un sorriso; i suoi muscoli facciali non funzionavano troppo bene) e farfugliò: — Scusate. Sono un po’ giù di corda. Ho preso… delle pillole per il raffreddore e mi hanno steso.

La donna annuì lentamente. — Sì, succede.

— Volete dire a Faraday che sono arrivato?

— Glel’ho già detto, signore. Vi chiamate Stuart Cole e siete un investigatore speciale della tesoreria di San Francisco, no?

— Sì — rispose Cole, barcollando. Non ricordava di averglielo detto, ma evidentemente lo aveva fatto. Gli scoppiò in testa un’idea: lo spacciatore aveva detto che si trattava di tranquillanti a effetto ritardato. Quindi, con ogni probabilità l’effetto vero cominciava solo in quel momento… Cole disse sottovoce: — Merda impestata. — Sperava di riuscire a cavarsela fino alla fine.

— Forse vorreste sedervi… — cominciò la segreteria, ma la voce che uscì dall’altoparlante nascosto nella sua scrivania disse: — Fatelo entrare.

La segretaria tornò a dedicarsi al suo terminale dati, indicandogli col pollice la porta che c’era alla sua destra.

Cole superò la scrivania con molta incertezza, cercando di orientarsi. Le gambe erano lontane, lontanissime. Gli oggetti ai margini del suo campo visivo sembravano fondersi. Superò la porta ed entrò nell’ufficio di Faraday. L’uomo dietro l’enorme scrivania di cromo e legno sintetico era avvolto nella nebbia. Cole strizzò gli occhi, ma la nebbia s’infittì. Il trilithum. Non riusciva a vedere bene Faraday, ma ebbe l’impressione di un uomo dai tratti angolosi, smilzo, coi capelli neri tagliati alla neopompadour.

— State bene, signor Cole? — chiese Faraday con voce da ragazzino.

— Sì… Ho un brutto raffreddore… Sono stati i medicinali, sapete com’è. Ah… — Cole socchiuse gli occhi, tentando di distinguere il vero Faraday dagli altri due nella proiezione tripla che vedeva. Strizzò gli occhi e si concentrò: i tre Faraday divennero uno solo. Cole avanzò con la grazia di un elefante, gettò la valigetta sulla scrivania di Faraday e, con dita tremanti, riuscì ad aprirla e a estrarre le carte e la scatola con lo spezzone di microfilm; poi mise il tutto sulla scrivania, sotto il naso dell’altro. — Sarà meglio venire subito al sodo — disse. — Non sto bene. Qui avete le prove di… — Cercò le parole. — Della corruzione nella polizia di San Francisco e nella sede di San Francisco del Tif. Anzi, Rufe Roscoe…

— A dire il vero — lo interruppe frettolosamente Faraday — conosco la natura delle vostre accuse. — Si mise a sfogliare la trascrizione della videoregistrazione. Le sue sopracciglia si alzavano e abbassavano di pagina in pagina.

Fu solo molto più tardi che Cole si chiese come facesse Faraday a conoscere la “natura” delle sue accuse.

— Bene — disse Faraday, annuendo per dimostrargli che era doverosamente impressionato dopo quello che a Cole parve un esame terribilmente breve del materiale — tutto questo richiede indagini approfondite. Dedicherò il resto del pomeriggio a questi documenti, e stasera conferirò con i miei collaboratori. Adesso… volete scusarmi? Se devo studiare ciò che mi avete portato, bisognerà che cominci subito; temo di essere terribilmente occupato, in questi giorni. Ah… potete tornare domani?

Cole aprì la bocca per ribattere, poi la chiuse senza aver detto niente. Domani? Significava dover trascorrere un’altra notte e parte di una giornata lontano da Città: una prospettiva agghiacciante. Ma non aveva scelta. Per prendere tempo, lasciò vagare lo sguardo nell’ufficio. Attraverso la nebbia che lo intorpidiva riuscì a vedere un grande schermo di comunicazione e, accanto allo schermo, un armadietto metallico, una macchina, probabilmente.

— Signor Cole?

Cole fissò Faraday, perplesso. — Oh… oh, sì, domani, d’accordo.

Girò di colpo sui tacchi, e per poco, travolto dall’accelerazione, non precipitò sul pavimento. La mancanza di sonno, unita al trilithum, lo aveva reso instabile come una marionetta. Recuperato l’equilibrio, si lanciò verso la porta, la superò, arrivò in sala d’attesa; e si fermò immediatamente. Cosa aveva dimenticato? La valigetta? Poteva riprenderla domani. Qualcos’altro. Si era scordato di stabilire l’ora del loro secondo incontro.

— Signore? — La voce della segretaria, alle sue spalle. Con un che di sprezzante. Probabilmente la donna pensava che lui fosse ubriaco.

Gli venne voglia di ridere. Poteva andare a sederle in grembo e farle sentire il fiato, per assicurarla che non aveva bevuto… Si riprese, scosse violentemente la testa. «Torna dentro e fissa un’ora per l’appuntamento», si disse. Voltandosi con estrema attenzione, traversò le sabbie mobili della moquette, rientrò nell’ufficio del viceprocuratore.

Faraday, fermo davanti alla macchina grigia (inserita nella parete: sporgevano soltanto un’apertura e una fila di comandi), non alzò gli occhi quando lui entrò. Stava inserendo qualcosa nella macchina, e intanto parlava allo schermo sulla sua sinistra. Sullo schermo, intento a fissare Faraday, c’era un viso, ed era il viso di Rufe Roscoe. Roscoe stava dicendo: — Se sei sicuro che arriveranno in tempo, non lasciarti prendere dal panico. Basta far scomparire il materiale… — S’interruppe. A San Francisco, aveva alzato gli occhi sul proprio schermo e aveva visto l’immagine televisiva di Cole accanto a Faraday. — Puttana miseria.

Cole guardava Faraday. Il viceprocuratore distrettuale stava inserendo la trascrizione di Cole nella macchina, che quasi sicuramente era una distruggidocumenti. “Se ne tiene una qui in ufficio” pensò Cole. “L’amico è ben preparato.” — Probabilmente avete intenzione di diventare procuratore… — disse ad alta voce.

Non vide gli uomini che lo afferrarono da dietro, ma lottò tanto da costringere uno a colpirlo alla nuca. E mentre piombava, felice, nell’incoscienza, pensò: “Sono poliziotti, e mi uccideranno”.

NOVVEY!

Le pareti di cemento della cella sembravano risucchiare ogni calore dal suo corpo. Fuori, la serata era calda. Lì, in una cella della prigione di Sacramento, Cole si sentiva esposto a venti polari. Rabbrividì, allacciò il bottone più in alto della camicia. Non gli avevano dato l’uniforme da prigioniero: per organizzare il finto tentativo d’evasione lo volevano in abiti civili, per distogliere l’attenzione dalla sua permanenza in prigione…

Al tramonto, quando si era risvegliato con la testa che gli pulsava follemente, aveva deciso che non l’avevano ucciso solo perché esistevano troppi testimoni che potevano non essere venduti al Tif. Inoltre, non sarebbe stato prudente permettere al medico legale di scoprire che gli avevano sparato mentre era svenuto. Cole era sicuro che intendessero ucciderlo. Normalmente, un prigioniero in stato d’incoscienza veniva portato all’infermeria della prigione. Invece, non volevano che un dottore ritardasse il suo trasferimento a San Francisco.