Seduto sull’orlo della cuccetta lercia, Cole annuì cupamente. Avrebbero inscenato il tentativo di fuga e gli avrebbero sparato il mattino dopo, durante il trasferimento. Logico.
Si avvolse attorno alle spalle tremanti la coperta ruvida e chiuse gli occhi, mettendosi in ascolto dei suoni smorzati della sera di Sacramento che gli giungevano dalla finestrella a sbarre affacciata sulla strada. Lasciò vagare i pensieri, fu cullato dai suoni striduli della città, trovò conforto nella presenza turbinosa di una città tanto simile alla sua, eppure così diversa. Ma anche lì c’era qualcosa che lui riconobbe: un senso di organizzazione invisibile. Cercò di concentrarsi su quella traccia esile…
— Di qui. — Una voce di donna, dalla porta metallica.
Cole guardò la finestrella a sbarre della porta. Non riusciva a vederla bene. Catz?
Balzò in piedi e corse alla porta, lasciando cadere la coperta sul pavimento.
Ma la donna alla porta era una sconosciuta. I capelli, tinti di rosso e uniti a formare due trecce, le ricadevano da un lato, sulla spalla sinistra, nuda. Il vestito aderentissimo, di un verde acceso, lasciava scoperto uno dei seni, su cui riposava languidamente una mano bianca, con le unghie laccate a specchio. Il corpo della donna era pieno; il volto originalissimo, a forma di cuore, scompariva quasi sotto la tinta blu cupo della carnagione. Gli occhi erano nascosti da un paio di occhiali assolutamente opachi; il che era strano perché la sconosciuta era, chiaramente, una prostituta, e le prostitute non nascondono quello che hanno da offrire… Cole sapeva che era una prostituta, e quella sicurezza non nasceva da deduzioni sul vestito e sul trucco (una voguer avrebbe potuto benissimo divertirsi a imitare lo stile puttana), ma dall’osservazione del suo atteggiamento: la donna era seducente e al tempo stesso insolente. In lei c’era un’altra cosa strana: una sorta di autocoscienza flemmatica, una sensazione di dimensioni nascoste. Cole aveva incontrato solo un’altra volta quella combinazione di attributi. In Città. E Città portava occhiali da sole. E Città poteva manifestarsi tanto sotto forma di uomo che di donna.
— Città? — chiese, timidamente.
Lei sorrise, impercettibilmente. Guardare la pelle del suo viso che si muoveva era come vedere una ripresa al rallentatore di una lastra di marmo che si deforma per effetto di un terremoto. Era dura, dura. — Città? — ripeté Cole, quasi convinto che si trattasse di lui.
Lei scosse la testa. — No. — La sua voce era roca, dispettosa, saggia. — Non sono quel posto. Io sono altrove.
— Come… come hai fatto ad arrivare fin qui?
— In questa città posso andare e venire a mio piacimento. Quasi sempre… Anche qui esiste qualche luogo che non posso raggiungere.
— Non sanno che sei qui? — chiese Cole.
— Non sanno che sono qui… Hanno deciso di ucciderti, Cole.
— Lo pensavo… Non si sono presi il disturbo di leggermi i miei diritti. Nessuna telefonata all’avvocato. Immagino che l’unico motivo per cui non mi hanno ancora ammazzato…
— …è che vogliono scaricare la responsabilità su San Francisco, nel caso dovesse andare storto qualcosa — terminò lei, annuendo.
Cole sputò per terra. — Fin dove si estende l’influenza di Roscoe? — chiese.
— In questo stato, fino a Redding. Ma stanno cercando di infiltrarsi nel Tif dappertutto. A volte ci riescono, a volte no. Avranno presto una grossa sorpresa, se gli altri… gli altri posti si organizzano a dovere.
— Cosa vuoi dire?
— Voglio dire morte. Voglio dire incidenti e ferite mortali e arti spappolati. Voglio dire morte per elettricità e annegamenti. E tutto molto efficiente, molto selettivo. Morte alle persone giuste. — Cole era sconvolto dal suo tono neutro. — Ma per arrivare a tanto dobbiamo coordinarci. Temo che il tuo… il tuo Città non collabori con tutti gli altri. È un tipo ossessivo. Si rifiuta di rilassarsi. La tua amica ti aveva avvertito… Lo so perché lei parla con Chicago, e Chicago parla con me.
— Catz? — chiese Cole. Afferrò le sbarre: aveva le mani sudate.
— Sì. Ha un ottimo rapporto con Chicago.
Tante cose si misero a turbinare nella mente di Cole, si fermarono poco per volta, mentre le implicazioni delle frasi apparentemente distratte della donna prendevano forma. E Cole seppe: — Sei Sacramento.
Lei annuì.
— E tutte le grandi città posseggono… menti coscienti di sé? E possono manifestarsi?
— “A volte” è la risposta a tutte e due le domande.
Cole esalò un respiro lungo, affannoso. — Allora… puoi tirarmi fuori di qui?
— Sì, se mi prometti una cosa.
— Sì.
— Promettimi che cercherai di convincere Città a collaborare con noi alla Spazzata. Lui capirà a cosa alludi… Se fosse rimasto maggiormente in contatto con noi, gli avremmo detto che il tuo viaggio era inutile, che Faraday è venduto…
— Te lo prometto.
Con la dolcezza del bacio di un bimbo, la porta della cella si spalancò.
Il corridoio di cemento era deserto, a parte le falene che svolazzavano. Cole seguì la donna, Sacramento, fino a una parete in fondo al corridoio. E, come tagliando fette di un dolce morbido, Sacramento tolse dalla parete blocchi enormi di cemento, che sotto le sue dita parevano diventare porosi, malleabili. Cole cercò di aiutarla e riuscì solo a sbucciarsi le mani. Per lui, la parete era solida come la più solida delle pareti… Metodicamente, lei smantellò la barriera, ammucchiando i blocchi in bell’ordine in un angolo, finché non ebbe scavato una porta in corridoio.
Poi lo guidò nella notte. Un taxi senza autista li portò alla stazione ferroviaria; il treno di mezzanotte stava per partire.
Sacramento lo salutò baciandolo sulla guancia.
La pelle della guancia di Cole bruciava come se lui l’avesse sfregata con del ghiaccio secco.
Catz.
Lo aspettava sul marciapiedi davanti al suo hotel. Erano le quattro del mattino. La presenza di Città stava diminuendo. L’alba stava illuminando la città muovendosi come il braccio di un oscilloscopio radar. Mentre Cole restava a fissarla muto, il chiarore del giorno si faceva sempre più intenso.
Lui scosse la testa.
Era stato liberato dalla prigione, da una trappola che doveva terminare con la sua morte. E Catz era lì, ed era tornato da Città.
Non poteva durare.
“Allora non sprecare un minuto” si disse, e le corse incontro.
Si abbracciarono. La stanchezza, che pochi minuti prima lo faceva barcollare, evaporò alla vista di Catz davanti a lui nel fulgore del sole del primo mattino, con le ombre azzurrastre che si ritraevano attorno a lei e il vapore della rugiada in evaporazione che si alzava dai suoi stivali neri. Adesso, con le braccia piene di lei, gonfiò le gote per lo stupore della miriade di sentimenti che sentiva risvegliarsi… Catz pareva stranamente piccola, magra, fragile, sotto la giacca di cuoio, in contrasto alla statura monumentale che lui ricordava.
Indietreggiò, la tenne davanti a sé a braccia tese, la guardò. Gli occhi marrone-oro di Catz erano enormi, le pupille dilatate dalle ombre che aveva attraversato. I capelli erano in disordine; non era truccata; qualche cicatrice sulla guancia spiccava enormemente sotto la luce, dandole un’aria adorabilmente tragica. Teneva le labbra serrate, come per impedire alla bocca di tremare, forse per non dimostrargli sino in fondo quanto fosse felice di rivederlo. Indossava un vecchio paio di blue-jeans aderenti, un po’ stracciati, e una maglietta sotto la giacca. Sul marciapiedi, accanto a lei, c’era una borsa di stoffa pesante con una scritta in vernice bianca: ANARCHIA.