— Stu? — chiese lei, incerta. — Riesco quasi… C’è qualcosa, ma…
— Catz… — cominciò Cole, e la ragazza alzò di colpo la testa. Lo aveva sentito.
— Stu!
La figura davanti allo specchio, Città, si voltò a guardare Catz. Cole si sentiva addosso quegli occhi. Avvertiva attorno a sé la Città, come un nuotatore avverte qualcosa degli abissi dell’oceano che lo circondano, anche se nuota nell’acqua bassa vicino a riva: risonanze di profondità enormi, lontane. Le piazze della città che risuonavano al passaggio delle macchine e degli uomini, le urla dei bambini…
Città girò la testa, e la sensazione della totalità urbana si smorzò in sottofondo. Città si avvicinò a Catz, protese una mano fredda verso la sua spalla. — Questo non è il tuo posto — dissero le labbra di ferro, sotto un naso che non respirava e le lenti a specchio.
Lei disse qualcosa: — Auh… auh… op… auh… — e indietreggiò, massaggiandosi le dita nei punti che sanguinavano. Poi si voltò, uscì dalla stanza, e Cole la sentì dire: — Mi spiace, Stu.
Qualcosa di caldo lasciò per sempre Cole. Lo stato in cui si trovava era talmente nuovo da procurargli dolore.
Città si girò verso di lui e gli disse: — Va’ dove vuoi. Percorri i meandri dello spazio e i labirinti del tempo. Ma non interferire col mio lavoro. È giunto il momento della Spazzata…
Splendido, Città oltrepassò porte che nascevano dall’incrocio di un piano di splendore con un altro piano di splendore e lasciò Cole solo, con il mondo intero a sua disposizione.
DIECIII!
Ognuno degli uomini presenti nella sala riunioni aveva quattro preoccupazioni. A dire il vero, in quel momento tre su sette pensavano esclusivamente alla cena: erano le diciannove e trenta di un giovedì. Gli altri quattro pensavano alla cena e anche agli impegni programmati per la serata (uno, l’avvocato, era in preda a una fantasia sessuale, e con la sinistra teneva viva l’erezione sotto i calzoni); con tutto il distacco possibile, pensavano anche al motivo di quella riunione. Erano stanchi di discutere, e l’argomento che si stava trattando era estremamente doloroso. I sabotatori. Non volevano pensare ai sabotatori (qualcuno sosteneva che si trattasse di un uomo solo, ma era impossibile che il semplice proprietario di un club fosse responsabile di un tentativo di strage, dell’omicidio di diversi vigilantes e della manipolazione di ologrammi che aveva interrotto l’“operazione concerto rock”; a parte un’altra mezza dozzina di fatti inspiegabili, compreso il massacro di uomini e vigilantes causato dall’assurda esplosione di tubature e lampioni) perché le implicazioni della cosa li spaventavano. Fino a poco tempo prima, tutto filava alla perfezione… Quindi, la discussione era passata dalle considerazioni retoriche ai battibecchi, alle ripicche petulanti, ai borbottii vaghi, per concludersi con un coro di sospiri e scrollate di spalle. Il problema, in mancanza di dati ulteriori, non aveva soluzione: bisognava accantonarlo.
Rufe Roscoe non era, naturalmente, soddisfatto dei risultati della riunione. Gli pareva di avvertire una singolare mancanza di decisione. I suoi collaboratori erano vaghi, indifferenti. Bastardi vigliacchi. Forse, rifletté, non dovevano più riunirsi in quella stanza con l’aria condizionata, lassù in alto, perfettamente al sicuro in un palazzo antisismico. Era una specie di grembo materno con vista panoramica; troppo comodo, forse. Ventotto anni fa, quando lui aveva iniziato la carriera, le riunioni si tenevano in stanze miserabili, piene del puzzo di sudore e di fumo, coi rumori del tavolo da bigliardo e della roulette che giungevano dalla stanza adiacente; quell’ambiente insicuro era servito, sempre, a ricordare a tutti che avrebbero potuto salire più in alto, essere meno esposti, ed era stata quella la molla che li aveva spinti. Proprio in una stanza di quel genere lui aveva lanciato il piano dell’imbroglio dei computer, il piano che gli aveva fatto guadagnare il primo milione di dollari.
Lì, invece? Pareti dalle tinte delicate, la musichetta che usciva da un altoparlante nascosto, uno svolazzare di nubi oltre le finestre dai vetri polarizzati… Tutti gli uomini riuniti lì, dal primo all’ultimo, si lasciavano cullare da quella gabbia compiacente, erano convinti della propria invulnerabilità, sguazzavano nella certezza che lì nessuno potesse attaccarli (e nessuno si preoccupava dei due individui mascherati che erano penetrati in una stanza identica a quella, sullo stesso piano, e avevano ucciso l’uomo venuto dall’est: erano state prese nuove misure, misure estremamente complicate, e un fatto simile non avrebbe mai potuto ripetersi). Erano sicuri.
La porta della sala riunioni, chiusa a chiave, schizzò via dai cardini e si abbatté sulla minuscola schiena orientale di Fred Golagong, spezzandola in tre punti e uccidendo all’istante Golagong.
Nonostante il panico, Rufe Roscoe pensò: “È quello che ci voleva per questi bastardi vigliacchi…”. Mentre l’uomo apparso sulla soglia (e anche se Roscoe non lo aveva mai incontrato di persona, non era uno sconosciuto: era la figura familiare uscita da un sogno bizzarro e ricorrente) correva avanti, con l’energia e la velocità di una macchina, a fracassare il tavolo. Colpi di pistola esplosero da tre direzioni diverse, uno dal corridoio esterno, e si udirono grida terrorizzate di uomini. Uno solo di quegli strilli era razionale, ed era quello di Rufe Roscoe: — Che cavolo di fine hanno fatto tutte le nostre guardie e i nostri sistemi di allarme? — Il che fu l’ultima cosa che disse in quel particolare ciclo esistenziale, dato che l’uomo con gli occhiali da sole e le braccia massicce come ponti levatoi lo uccise, pochi secondi dopo, con un solo colpo.
C’erano sette uomini da uccidere, ma occorse solo un minuto e mezzo.
La Spazzata era iniziata, e San Francisco stava facendo la sua parte.
Le otto di sera a Phoenix, Arizona. Una serata calda.
Phoenix è una città dove le imprese edilizie scavano di continuo quelle cicatrici del tessuto urbano che gli uomini chiamano cantieri. Costruzione e distruzione, persone che fanno discorsi commossi per commemorare il ciclo eterno di morte e rinascita. Si costruisce il nuovo sulle ceneri del vecchio e via dicendo, le ceneri da cui, presumibilmente, risorge la Fenice.
E, come un assurdo uccello meccanico che alzasse la testa, il robodemolitore sollevò la gru, fece ruotare lentamente la sfera da dieci tonnellate che pendeva dal cavo, proprio come un uccello dal collo molto lungo che spostasse la testa per guardarsi attorno. La macchina aveva nidificato tra le rovine di un edificio colossale, in un buco pieno a metà di calcinacci dalla forma irregolare e travi spezzate.
Nel cantiere deserto, l’edificio, demolito per tre quarti, lasciava a nudo i locali di uno degli ultimi palazzi del Diciannovesimo secolo rimasti in città. Era stato un palazzo meraviglioso, orgoglio della città: un teatro completo di angeli che reggevano le cornici delle finestre e grondaie artistiche, ornamentali. Un palazzo solido, costruito perché la buona pietra e il buon legno durassero in eterno, e avrebbe potuto sopravvivere per un altro secolo, non fosse stato per la cupidigia di un certo imprenditore edilizio… L’architetto che aveva ideato il vecchio edificio, nel 1891 si era arricciato, tutto orgoglioso, i baffi robusti davanti alla stesura definitiva del progetto. Non aveva mai previsto, e nemmeno immaginato, quel giorno, il giorno che il frutto del suo ingegno sarebbe giaciuto distrutto ai piedi di una macchina insensibile, l’assassino.
Ma, come se l’assassino avesse compreso improvvisamente quale patrimonio storico aveva distrutto, come se fosse deciso a vendicare il delitto di cui era stato arma inconsapevole, accese gli occhi elettronici e le luci e trasportò via le sue innumerevoli tonnellate di metallo dal luogo della distruzione, avventurandosi in una stradina laterale poco affollata.