Il demolitore si era risvegliato senza l’aiuto del suo programmatore, e senza istruzioni dal programmatore seguì un percorso ben preciso fra il labirinto di strade secondarie, intasando il traffico, e facendo scattare cinque diversi tipi di allarmi.
Tutti fuggivano davanti alla macchina; nessuno si fermava a discutere l’impossibile.
La destinazione del demolitore distava appena sei isolati: un palazzo nuovissimo, costruito su sei piani esagonali, con vertebre trasparenti fra un piano e l’altro che contenevano scale mobili e ascensori. Era un edificio composto quasi esclusivamente di plastivetro polarizzato e travi di cromalluminio; autosufficiente, sempre illuminato da luci soavi, fiero della propria modernità. Al primo piano di quella struttura superba, tre uomini e due donne stavano discutendo animatamente.
Uno dei cinque, Lou Paglione, continuava a colpire il piano del tavolo col palmo della mano, a sottolineare le sue parole. — Non me ne frega un accidente… — slap! — se quello pensa di essere il capoccia di tutto l’emisfero occidentale… — slap! — Deve sempre fare le cose… — slap! — secondo le… — slap! — procedure stabilite! — slap!
Rialzò la testa, infilò le mani nelle tasche dei calzoni di tweed, compiaciuto di essere al centro dell’attenzione. Probabilmente era l’individuo di aspetto più banale presente nella stanza (spalle strette, pancetta, cranio calvo, occhiali con le lenti spesse, insomma l’aria da professorucolo di scuola media), eppure tutti gli altri visi si girarono verso di lui, in rispettosa attesa.
— Il punto — disse Paglione grattandosi un orecchio — è che a voi potrà sembrare una cosa da niente, ma per me è un fatto enorme. Il signor Rufe Roscoe prende accordi per comunicare, dopo ogni riunione, con tutti i comitati direttivi cittadini. Dice che vuole trasmettere le loro ultime decisioni. Con quelli di noi che sono più vicini come fuso orario dice che parlerà direttamente. Okay! Dà queste istruzioni del cazzo con grande eleganza, con una classe che impedisce di mettersi a discutere… Okay, lasciamo perdere, però lo sa Dio se anche noi non abbiamo le nostre scadenze da rispettare… E poi se ne frega delle sue istruzioni… — Paglione agitò le mani in direzione dello schermo spento. Lo schermo serviva anche da tavolo, e attorno vi erano seduti i cinque direttori dell’Alba Ovest s.p.a., sigla fasulla dietro cui si nascondeva la malavita di Phoenix interessata all’operazione computer.
Una donna (occhi azzurri, cinici; viso da nobile viziata; parrucca bionda a mo’ di serpente arrotolato) si leccò le labbra sottilissime e ribatté: — Sarà meglio ricordarci, Lou, che Rufe Roscoe ha sempre fatto ciò che prometteva. È la prima volta… ed era anche una riunione importante. Non è da lui passarci sopra. E poi c’è il fatto che non riceviamo nessuna risposta dal suo palazzo. Insomma, dovrebbe esserci almeno qualcuno al centralino; invece, neanche quello.
Paglione fece una smorfia, annuì in direzione dello schermo azzurro-grigio. — Quindi, secondo te è andato storto qualcosa. — Ci sono diversi modi di dire è andato storto qualcosa: Paglione lo disse come per intendere: Li hanno attaccati.
— Sono corse voci su certi fatti pazzeschi — azzardò un uomo giovane. — Io, uh, non ci ho creduto; non credo mai alle voci. Però adesso non mi sembrano più così pazzesche… Sto cominciando…
Un suono strangolato gli uscì dalla gola. Il giovanotto fissava il rettangolo buio della finestra alle spalle di Paglione. Paglione si girò a guardare. — Cosa? — disse.
Il vetro della finestra era predisposto per la semiopacità, ma una cosa abbastanza grossa, abbastanza vicina, si sarebbe sempre intravista in silhouette.
— È solo un’ombra — commentò acidamente la donna, distogliendo gli occhi dalla finestra.
Ma Paglione continuò a guardare. La silhouette si ingrandiva di secondo in secondo. Era una forma mostruosa, un gigante scheletrico con un enorme pugno rotondo. Il giovanotto si alzò bruscamente, raggiunse la finestra, programmò il vetro per la trasparenza assoluta.
Paglione non sarebbe diventato il boss locale se non avesse, spesso e volentieri, dato retta al suo istinto. Quindi, non vide nemmeno il demolitore che si scagliava verso la finestra: stava già correndo in corridoio, verso l’ascensore.
Ma il giovanotto e gli altri lo videro, e ciascuno ebbe il tempo di lanciare un urlo.
La macchina era troppo imprevedibile e troppo vicina (e troppo grande) perché la riconoscessero in quell’istante, anche se si stagliava perfettamente contro lo scintillio notturno delle luci della città. Per le quattro persone che restarono nella stanza, era solo lo strumento gigantesco e oscenamente metallico che portava la morte. Prima che avessero il tempo di tirare il fiato per un secondo giro di urla, la stanza esplose: frammenti enormi di vetro e cromalluminio, di sangue e di carne a brandelli, piovvero sulla moquette azzurro cielo dell’ufficio a pianterreno.
Paglione stava scendendo al volo la scala mobile (che, essendo notte, era ferma; ma lui divorava quattro scalini alla volta). Arrivato a pianterreno, schizzò fuori dalle porte a vetro, arrivò nel parcheggio a piastrelle; poi inciampò e cadde quando il terreno sotto i suoi piedi tremò e spezzoni di assassini al silicone gli piovvero attorno. Nemmeno uno dei pezzi di vetro lo colpì in pieno. Paglione si rialzò, urlò qualcosa come: — Aaak, aughk! — e, isterico, fuggì.
Il demolitore stava abbattendo l’edificio con efficienza micidiale. La sua sfera magnetica dilaniava caparbiamente angoli, strutture portanti, squarciava il palazzo con strategia perfetta, quasi fosse in grado di pensare. Dalla sfera stessa uscivano microonde che si trasmettevano alle pareti più resistenti dell’edificio, che ammorbidivano le travature per il colpo successivo. Nel giro di un quarto d’ora, il palazzo che costava milioni di dollari, nato da quattro mesi, si era afflosciato, era precipitato come un castello di carte. L’intera città risuonò a quel crollo.
Uno dei molti pompieri che osservavano, stupefatti, dagli automezzi fermi lì davanti, fischiò piano tra sé e sé. L’uomo al suo fianco sorrise di una soddisfazione strana, sognante. — È come un sogno che ho fatto l’altra notte — disse. — Buffo…
— Sì, l’ho sognato anch’io.
L’autopompa, parte di una minuscola folla di veicoli d’emergenza accorsi alla segnalazione della presenza di un demolitore impazzito, era parcheggiata distante dagli altri; motori e luci erano spente, non c’era autista. Ma, senza autista, il veicolo partì e si spostò al centro della strada, sorprendendo i pompieri che si trovavano sulla piattaforma. Si lanciò verso la figura di un uomo che correva sul marciapiedi. Un uomo piccolo, quasi calvo, col cranio lucido inondato di sudore. L’uomo si guardò alle spalle e disse: — Aaak, aughk! — mentre l’autopompa lo travolgeva. Poi, il boss Paglione rese l’anima, e il demolitore smise di demolire e l’autopompa si fermò e una parte particolare della supermente collettiva di Phoenix ripiombò nel sonno.
Diverse centinaia di migliaia di persone, addormentate o in stato di semitrance davanti al televisore, emisero grugniti di soddisfazione. Non sarebbero mai state in grado di spiegare perché erano talmente orgogliose di sé; non sapevano cosa avessero fatto. Ma l’orgoglio c’era, un nido di parassiti era stato distrutto. Phoenix aveva fatto la sua parte.
E a Chicago… E a Sacramento… E a Portland, Seattle, Boise…
…A Manhattan, un gruppo di uomini dall’espressione cupa si stava recando a una riunione su una limousine blindata. La blindatura servì a ben poco quando la macchina, inspiegabilmente, decise di seguire un percorso di testa sua, lanciandosi nel tunnel Lincoln (cioè in una direzione assolutamente sbagliata) a centotrenta chilometri l’ora, mentre i comandi si rifiutavano di rispondere all’autista, terrorizzato. Fu appena fuori dal tunnel, in una zona più ampia, meno affollata, che si scontrarono frontalmente con un’altra limousine.