— Grazie. Hai gettato un ponte verso di me — disse Stu, dal finestrino del lucernario sopra lo studio. Lei vide il riflesso di lui, ma non c’era nulla a proiettare il riflesso.
Non importava: riusciva a sentirlo. — Oh, Gesù Cristo santissimo, bastardo, idiota, porco, figlio di puttana… — Continuò a quel modo per un po’, e questa volta le lacrime accompagnarono lo sfogo verbale.
Il chiarore di Cole sul finestrino continuò a sorridere debolmente finché Catz non ebbe finito. — Adesso va meglio? — le chiese, quando lei piombò nel silenzio.
— Hai permesso che s’impossessasse di te — disse Catz, secca. Si era messa a sedere, le gambe distese sul tappeto.
— Non ho potuto farci niente — disse Cole. — Ma adesso sono con te. Sono ancora…
— Basta! Vuoi raccontarmi le solite balle tipo sarò-per-sempre-con-te-nello-spirito? Non m’interessano. Non voglio che tu te ne stia sempre qui con me. Continuerei a pensarci. Non ho intenzione di vivere come una monaca di clausura e di continuare a rimpiangere il mollusco che eri, Cole. Sono assolutamente decisa a fare l’amore tutte le volte che mi va, e non voglio che tu te ne stia qui attorno, invisibile, a spiarmi.
Cole rise. Catz, no.
Dopo un po’, Cole disse: — Dovevo raccontartelo.
Nella voce di lei c’era un tono di profonda amarezza, quando rispose: — Oh, capisco.
— Adesso devo tornare a San Francisco.
— Ci avrei scommesso.
— Ti aiuterò nella carriera. Credo di poter…
— Non farmi nessun favore — disse lei. Si alzò e raggiunse in fretta la porta. Uscendo, fece un gesto rabbioso verso il banco di registrazione, premette un pulsante: la musica registrata, la musica della band di Catz, zampillò nella stanza come un’esplosione gloriosa. Catz era scomparsa. Cole si fermò un attimo, ad ascoltare. Poi tornò a un’altra città, a un’altra musica.