Robert Silverberg
La notte di fuoco
Verso il tardo pomeriggio, Elena salì sul picco più alto dell’isola a due gobbe per guardare le prime fasi dell’eruzione. L’aveva accompagnata una moltitudine di ragazzi e bambini, piccole creature dalla pelle gialla, graziosamente sgambettanti, storditi dalla gioia all’idea di accompagnare la donna della Terra. Le rotolavano e sgambettavano accanto, mentre la processione risaliva la strada di montagna, e quando il gruppo, dopo aver girato intorno al cono, giunse in un punto da cui si poteva vedere l’altro picco, uno dei ragazzi disse:
«Vedi il fumo, Elena? Presto ci sarà anche il fuoco.»
Era Vondik che le aveva parlato, uno dei suoi prediletti, uno dei più agili e forse il più intelligènte. Quando Elena si spostò sul ciglio della strada per godere una visuale migliore, il ragazzo le scivolò accanto. La sua fredda mano a sei dita si posò casualmente sulla pelle nuda della gamba sinistra di lei, pochi centimetri sotto il fianco. Poi Vondik sollevò lo sguardo al viso di Elena per rendersi conto se lei disapprovava quel contatto. Certo, in una situazione diversa, sulla Terra per esempio, tra, alunno e maestra un simile contatto sarebbe stato assolutamente inammissibile. Ma quella non era la Terra, e Vondik voleva semplicemente dimostrare la sua premura. Aveva circa nove anni, quindi gli mancavano un paio d’anni per entrare nell’età adulta. Elena, comunque, si disse che in quel contatto innocente non c’era niente di sessuale.
Gli altri ragazzi chiacchieravano tra loro e indicavano il picco lontano. Elena aveva difficoltà a capirli per la rapidità con cui parlavano. L’avvicinarsi dell’eruzione li aveva eccitati e resi frenetici. Erano come scimmie, pensò Elena. Agili scimmie gialle che diventavano nervose all’avvicinarsi del temporale.
«Verrà il fuoco» disse Vondik. «Le pietre si scioglieranno e copriranno tutto. Capisci? Le colate di fuoco avanzeranno sui villaggi e li distruggeranno.»
«Fra quanto tempo?» domandò Elena.
Le dita di Vondik si strinsero sulla gamba della ragazza.
«Due tramonti, o tre. Domandalo ad Haugan. Domandalo al capo. Questa notte, quando vai a dormire con lui, fattelo dire.» Vondik scoppiò a ridere. «Vedi, c’è del fuoco. Lo vedi, Elena?»
Lei girò lo sguardo per la valle, che, da quel punto, offriva un panorama magnifico. Si potevano vedere i verdi pendii dell’altra montagna e due dei tre villaggi che erano sorti sotto la vetta del vulcano dopo l’ultima eruzione, avvenuta alcune generazioni prima. L’isola a due gobbe misurava circa dieci chilometri di diametro, e sorgeva con ripide sponde dalle scure acque del Lago Muuk. Il lago era un gigantesco bacino di qualche antico cratere, la base di quella che doveva essere stata una montagna incredibile. Misurava trenta chilometri di larghezza. A est, Elena poteva vedere il corso a zig-zag del Golden River, giallo per il fango delle montagne. Il fiume scendeva dal nord, sgorgando da fredde zone marnose per rifornire d’acqua il lago che si era formato nel cratere. Il lago pareva che non avesse sbocco. Elena immaginò che una corrente sotterranea portasse via il flusso giornaliero della nuova acqua. Le tonnellate di fango giallo che affluivano quotidianamente si perdevano nelle profondità del Lago Muuk, che rimaneva ostinatamente scuro e ostinatamente profondo, senza mai cambiare, nonostante tutto quello che il Golden River riversava nelle sue acque. Più lontano, oltre le rive del lago, Elena vide l’immensa savana tropicale, abitata da tribù ostili. La gente del lago, autosufficiente, non lasciava mai l’isola, benché le due montagne fossero vulcani attivi, e la più piccola delle due fosse prossima a una eruzione.
Una volta, dieci anni prima, Elena era salita sul Vesuvio. Era andata fino in cima e aveva guardato nella nera profondità della terra. Poi, rabbrividendo, aveva guardato verso la morta Pompei. Qui, però, non poteva avvicinarsi molto al cratere: per quella gente era terreno proibito. I villaggi sorgevano nella valle e si arrampicavano sui pendii per centinaia di metri. Sopra le ultime abitazioni si stendeva una grande cintura di foresta fitta, di terra mai coltivata, inviolabile e sacra. Più sopra ancora, si allargava la zona delle ceneri, che raggiungeva la sommità. Quando si erano sentiti i primi brontolii sotterranei, Elena aveva pensato di salire la montagna per valutare il pericolo da vicino. Haugan però glielo aveva proibito. Lui non era soltanto marito. Era anche il capo dei tre villaggi, il Re del Golden River, e non si poteva disobbedire. Così ora Elena si trovava sulle pendici della montagna disabitata, intenta a guardare dall’altra parte della valle, verso il vulcano minaccioso.
«Semina molta morte, quando scoppia» disse Vondik.
«Ma tutti saranno oramai in luogo sicuro» disse Elena.
I ragazzi scoppiarono a ridere. Fu un coro squillante e acuto, che, poco a poco, si affievolì. Quando era arrivata su quel pianeta aveva trovato la risata degli indigeni intollerabile. Poi si era abituata, e ora la trovava affascinante. Ma era logico ridere davanti a un vulcano minaccioso?
Il cielo si stava facendo scuro. Masse di nuvole rossastre si stavano avvicinando da est, dall’oceano, cariche di pioggia. Contro lo sfondò scuro del cielo, Elena poteva perfettamente vedere il materiale incandescente che veniva proiettato nell’aria dall’imbuto di cenere, e che ricadeva sull’isola. Si sentivano sibili e boati. Una fontana di ceneri e di pomice, di color rosso acceso, scaturiva dal cratere e ricadeva lungo i pendii. Attraverso le lenti di osservazione, Elena vide una pioggia di piccole particelle rosse zampillare nell’aria per poi ricadere e perdersi nel grigio delle ceneri che orlava la vetta. Ebbe un brivido. Quanto tempo sarebbe ancora passato prima che il vulcano lanciasse il materiale incandescente fino alla foresta sacra che ricopriva i fianchi della montagna e riversasse la lava fino ai villaggi affollati? La terra sembrava tremare, anche lì, a molti chilometri dal pericolo. Elena sapeva che sotto quell’isola, sotto i due picchi, si agitava una massa di fuoco liquido. Un mostro gigantesco che si stava risvegliando sotto i suoi piedi.
Adesso la mano di Vondik non era più sulla sua gamba. Elena si guardò attorno, e vide l’agile sagoma nuda del ragazzo in cima a un albero: Vondik colse un frutto dorato e lo lanciò. Gli altri ragazzi lo afferrarono al volo e vennero trionfanti verso di lei.
«Un frutto dell’allegria per te.»
Elena accarezzò la guancia del ragazzo per ringraziarlo, poi prese il frutto e lo addentò: i ragazzi rimasero a guardare ansiosi. Lei sorrise, per far capire che il frutto era polposo e squisito. I frutti dell’allegria venivano lasciati maturare sull’albero; ma se vi rimanevano troppo a lungo, il loro sapore diventava aspro. Elena provò un leggero stordimento quando l’alcool del frutto le scese nel corpo. I ragazzi le fecero delle piroette attorno. Come potevano essere così spensierati? Le loro abitazioni stavano per essere distrutte. Quella gente non era semplice e ignorante anzi era acuta e sensibile, in un modo tutto particolare. Eppure nessuno dava l’impressione di essere preoccupato.
Markun, una delle tante sorelle di Vondik, fece dei salti e alzò una mano.
«Adesso arrivano i lampi.»
Si era fatto buio con rapidità tropicale. Il cielo perlaceo era diventato color cenere, e ora la fontana di pomice brillava come una gigantesca candela, avvolta dalla nuvola nera dei gas dell’eruzione. E nella nuvola saettavano delle bianche striature di fulmini. In un primo momento, Elena pensò che provenissero dalla nuvole rossastre che aveva visto poco prima, poi si accorse che provenivano dalla nuvola che si stendeva come un velo sulla cima degli alberi della foresta, ai margini della zona di cenere. I fulmini erano qualcosa che aveva a che fare con le forze che si liberavano dal vulcano. Esplodevano e si allargavano con furia demoniaca.
«Ci conviene avviarci verso il villaggio» disse Elena con un certo nervosismo. «È tardi, e si sta facendo buio.»