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Fred Hoyle

La Nuvola nera

Prologo

L’episodio della Nuvola nera ha sempre avuto su di me grande fascino. Su certi aspetti di quell’epico avvenimento ho scritto la tesi che mi ha permesso di ottenere un posto fra i chiarissimi professori del Queen’s College, a Cambridge. La tesi, con le opportune modifiche, fu poi pubblicata con mia grande soddisfazione, quale capitolo dell’opera di Sir Henry Clayton: Storia della Nuvola nera.

Non deve quindi sorprendere il fatto che Sir John McNeil, già nostro decano e notissimo medico, mi abbia lasciato morendo un voluminoso carteggio in cui egli narra le sue personali esperienze sulla Nuvola. Più sorprendente invece è la lettera unita a quelle carte. Eccola:

Queen’s College, 19 agosto 2020

Mio caro Blythe,

spero che perdonerà questo povero vecchio se di tanto in tanto si è fatto gioco delle sue congetture circa la Nuvola nera. Il fatto è che durante la crisi mi son trovato in posizione tale da poter sapere molte cose sulla natura reale della Nuvola. Per varie imprescindibili ragioni non ho mai rese pubbliche queste notizie, ed esse infatti paiono ignote agli autori delle storie ufficiali (sic!). Mi son chiesto con molta ansia se queste cognizioni dovevano seguirmi nella tomba o invece passare ad altri; poi ho deciso di consegnare a lei le mie perplessità e le mie incertezze. Perplessità e incertezze che le saranno più chiare quando avrà letto il mio manoscritto. A proposito, l’ho redatto in terza persona, sì da non ingombrare troppo con la mia presenza questa storia!

Oltre al manoscritto le lascio una busta contenente un rotolo di carta perforate. La prego di custodirla con la massima cura fino a quando non sia in grado di intenderne il significato.

Mi creda il suo affezionatissimo

John McNeil

1

Preludio

Erano le otto sul meridiano di Greenwich. In Inghilterra si levava il sole invernale del 7 gennaio 1964. Per tutta la terra, in lungo e in largo, la gente tremava nelle case mal riscaldate, leggendo i giornali del mattino, mangiava la colazione e mugugnava contro il tempo che, a dire il vero, da qualche giorno era proprio infame.

A sud il meridiano di Greenwich traversa la Francia meridionale, i Pirenei nevosi e l’estremo angolo orientale della Spagna. Poi quella linea immaginaria scorre ad ovest delle Baleari, dove certa saggia gente del nord passava le vacanze invernali: su una spiaggia di Maiorca un’allegra comitiva tornava dal bagno del primo mattino. Poi traversa l’Atlantico del Nord e il Sahara.

Il meridiano di Greenwich, che fra tutti è il più importante, prosegue poi verso l’Equatore attraverso il Sudan francese, Ashanti e la Costa d’Oro, dove, lungo il fiume Volta, si stava costruendo un nuovo impianto per la lavorazione dell’alluminio. Di lì una vasta distesa di oceani, ininterrotta fino all’Antartide, dove le spedizioni di dieci Stati diversi si stavano prendendo a gomitate.

Tutta la terra a oriente di questa linea, e fino alla Nuova Zelanda, era esposta al sole. In Australia si avvicinava la sera. Fra il Nuovo Galles del sud e il Queensland l’ultima frazione del giorno si confondeva con la prima della notte. A Giava i pescatori si apparecchiavano al prossimo lavoro notturno.

Su gran parte dell’immensa distesa del Pacifico, sull’America e sull’Atlantico era notte. A New York erano le tre del mattino. La città scintillava di luci e c’era ancora molto traffico, nonostante la neve recente e il vento freddo di nord-ovest. Ma in nessun luogo della terra, in quel momento, c’era più vita che a Los Angeles. La sera era ben avanzata, quasi mezzanotte: i viali affollati, le auto lanciate in corsa sulle strade, i ristoranti ancora abbastanza pieni.

Centoventi miglia a sud gli astronomi di Monte Palomar avevano già cominciato il lavoro notturno. La notte era chiara e le stelle scintillavano dall’orizzonte allo zenit, tuttavia, da un punto di vista professionale, le condizioni erano scadenti, la visibilità scarsa: infatti ad alto livello c’era troppo vento. Perciò a nessuno dispiacque di lasciare gli strumenti di lavoro per lo spuntino di mezzanotte. Sul far della sera, quando già si era delineate quella condizione notturna alquanto incerta, tutti d’accordo avevano deciso di riunirsi nella cupola 48 pollici, lo Schmidt.

Paul Rogers percorse i 400 metri circa che separavano lo Schmidt dal suo 200 pollici, e trovò Bert Emerson già seduto davanti a una scodella di minestra. Andy e Jim, gli assistenti di notte, trafficavano alla cucina economica.

«Scusa se ho cominciato,» fece Emerson, «ma mi pare che stanotte non ci sarà nulla da segnalare.»

Emerson lavorava a uno speciale lavoro di rilevazione del cielo, e per questo occorrevano condizioni di visibilità ottima.

«Bert, sei fortunato. Mi pare che anche stanotte te ne potrai andare a letto presto.»

«Resto su ancora un paio d’ore. Poi, se non c’è miglioramento, rientro.»

«Minestra, pane e marmellata, sardine e caffè,» disse Andy. «Cosa preferisce?»

«Una scodella di minestra e una tazza di caffè, grazie,» disse Rogers.

«Cosa fate al 200 pollici? Adoperate la macchina da presa lenta?»

«Sì, stanotte vado avanti bene. Ci son diversi spostamenti, che voglio completare.»

Si interruppe perchè era entrato Knut Jensen: aveva dovuto fare una strada alquanto più lunga, perchè veniva dall’altro Schmidt, un 18 pollici.

Emerson lo salutò.

«Salve, Knut, c’è minestra, pane e marmellata, sardine e il caffè di Andy.»

«Grazie; per cominciare vorrei minestra e sardine.»

Il giovane norvegese era, come suol dirsi, un fusto: prese una scodella di crema di pomodori e ci versò dentro una scatola di sardine. Gli altri lo guardavano sbigottiti.

«Perbacco, deve aver fame il giovanotto,» fece Jim.

Knut alzò gli occhi come sorpreso.

«Voi non le mangiate così le sardine? Ma allora non sapete come si mangiano. Provate, vi piaceranno.»

E poi, convinto di aver fatto impressione, aggiunse:

«Credo di aver annusato una puzzola, qua intorno, prima di arrivare.»

«Sempre meglio di quella roba che stai mangiando,» disse Rogers.

Quando si fu spenta la risata, Jim chiese:

«Avete sentito la puzzola che venne due settimane fa? Ha mollato il gas proprio alla presa d’aria del 200 pollici. Non riuscimmo a fermare la pompa e la cupola s’è riempita. Puzzo al cento per cento, e proprio mentre c’eran dentro duecento visitatori.»

«Per fortuna non facciamo pagare l’ingresso,» osservò Emerson ridacchiando, «altrimenti ci toccherebbe vendere l’osservatorio per pagare i danni.»

Tornando al 18 pollici Jensen si fermò ad ascoltare il vento tra gli alberi sul fianco settentrionale del monte. Lo prese un’onda di nostalgia, perchè quei monti gli ricordavano casa sua; gli sarebbe piaciuto essere con i suoi, e con Greta. Aveva ventiquattro anni e una borsa di studio gli consentiva di passarne due negli Stati Uniti.

Continuò, cercando d’uscire da quello stato d’animo che gli pareva ridicolo. Non c’era nessuna ragione logica per sentirsi giù di morale: lo trattavano tutti con grande cortesia e gli era toccato un lavoro ideale per un principiante.

L’astronomia è sempre gentile con i principianti. Ci son molti lavori da fare, lavori che tutti insieme portano a risultati cospicui, ma che, singolarmente, non richiedono grande esperienza. Era il caso di Jensen. Doveva cercare le novae, cioè quelle stelle che esplodono con violenza incredibile. Entro il prossimo anno poteva sperare di trovarne un paio. Nessuno sa quando può esplodere una nova, o in quale parte del cielo si trovi al momento dell’esplosione, perciò non c’è altro da fare che continuare a prender fotografie di tutto il cielo, notte per notte, mese per mese. Chissà, un giorno o l’altro avrebbe avuto fortuna. È vero che, se avesse trovato una nova non troppo lontana nell’immensità dello spazio, il suo lavoro sarebbe passato subito in mani più esperte. Invece dello Schmidt, la piena potenza del grande 200 pollici si sarebbe spiegata a rivelare gli spettacolosi segreti di queste strane stelle. Ma in ogni modo sarebbe toccato a lui l’onore della prima scoperta. Tornando a casa avrebbe potuto vantare tutta l’esperienza che si andava facendo nel più grande osservatorio del mondo: c’erano quindi buone speranze di trovare lavoro. Avrebbe sposato Greta. E allora che motivo c’era di preoccuparsi? Si diede dello sciocco, pensando che s’era lasciato turbare dal vento sul fianco della montagna.