Intanto era giunto alla baracca che ospitava lo Schmidt piccolo. Entrò e per prima cosa diede un’ occhiata al taccuino, per vedere qual era il settore di cielo che gli toccava fotografare. Poi diresse il telescopio nel senso giusto, a sud della costellazione di Orione: solo a mezzo inverno si può raggiungere questa regione celeste. Quindi apri l’obiettivo; non doveva far altro che starsene seduto al buio lasciare che i pensieri vagassero liberamente.
Jensen lavorò fino all’alba, una fotografia dopo l’altra. Ma il lavoro non era finito, perchè doveva sviluppare le lastre che si erano accumulate durante la notte. Questo era un lavoro che richiedeva grande attenzione. Un errore a questo punto avrebbe significato lavorare ancora e duramente: nemmeno da pensarci.
In condizioni normali non gli sarebbe toccato questo compito, così estenuante. In condizioni normali si sarebbe ritirato nel dormitorio; poi cinque o sei ore di sonno, colazione a mezzogiorno e quindi, ma solo allora, avrebbe dovuto affrontare il compito dello sviluppo. Ma questa volta era al termine del suo turno. In quel periodo la luna sorgeva di sera, e ciò significava, per quindici giorni, un arresto dell’osservazione: non si può cercare una nova nella metà del mese in cui la luna occupa il cielo notturno, perchè la luna dà troppa Iuce e annebbia irreparabilmente le lastre.
Così proprio quel giorno sarebbe tornato agli uffici dell’osservatorio a Pasadena, 125 miglia distante. Il mezzo per Pasadena partiva alle 11,30, e prima di allora bisognava aver finito lo sviluppo. Jensen concluse che era meglio farlo subito; poi avrebbe dormito quattro ore, due bocconi in fretta e via di ritorno in città.
Andò tutto come aveva previsto, ma sulla macchina dell’osservatorio quel giorno viaggiò un giovanotto assai stanco. Erano in tre: Rogers, Jensen e l’autista. Il lavoro di Emerson sarebbe durato due notti ancora. Gli amici di Jensen, là nella Norvegia imbacuccata di neve e percossa dal vento, sarebbero rimasti sorpresi sentendosi dire che Jensen dormì mentre la macchina correva, per miglia e miglia, fra aranci che fiancheggiavano la strada.
Jensen dormì fino a tardi la mattina dopo, e solo alle 11 giunse agli uffici dell’osservatorio. Aveva dinanzi a sè quasi una settimana di lavoro, per esaminare le lastre impressionate negli ultimi quindici giorni. Il suo compito era quello di confrontare le ultime osservazioni con altre lastre impressionate il mese prima. E doveva far questo, volta a volta, per ogni pezzetto di cielo.
Così la mattina dell’8 gennaio 1964 — era ormai tardi — Jensen scese nello scantinato dell’osservatorio per manovrare uno strumento chiamato dagli astronomi «blink microscopio». Il blink (che si potrebbe tradurre quasi «oscillatore») è uno strumento che consente di guardare prima una lastra, poi l’altra, poi ancora la prima e così via, ma sempre con un movimento assai rapido. Facendo così, ogni stella che muti in qualche misura posizione nell’intervallo di tempo fra la prima e la seconda lastra si presenta come un punto mobile, «oscillante», di luce, mentre la grande maggioranza delle altre stelle, non avendo mutato posto, restano fisse. In tal modo è possibile, con relativa facilità, cogliere tra diecimila quella stella che si è spostata. In tal modo si risparmia anche un’enorme quantità di lavoro perchè non c’è bisogno di esaminare tutte le stelle, una per una.
Occorre peraltro una grande cura nel preparare le lastre per il blink. Non solo è necessario impressionarle sempre con lo stesso strumento, ma, nei limiti del possibile, in condizioni identiche. Occorre la stessa apertura di obiettivo e anche lo sviluppo deve essere identico: questo almeno è l’ideale dell’astronomo. Ecco perchè Jensen aveva fatto tanta attenzione all’obiettivo e allo sviluppo.
La difficoltà sua stava in questo: non sono soltanto le stelle esplodenti, le novae, quelle che mostrano qualche mutamento. E vero che la grande maggioranza delle stelle non muta, ma vi sono numerose qualità di stelle oscillanti, ed esse «oscillano» tutte nella camera sopra descritta. Queste stelle ballerine di tipo ordinario devono essere controllate a parte od eliminate dal lavoro di ricerca. Jensen aveva calcolato che, prima di trovare una nova, avrebbe dovuto cogliere ed eliminare un caso di stella oscillante, ma in altri casi c’erano dei dubbi. Allora egli ricorreva al catalogo delle stelle, cioè misurava l’esatta posizione della stella in questione. Tutto sommato c’era un bel po’ di lavoro da svolgere per terminare la pila di lastre, un lavoro non poco noioso.
Verso il 14 gennaio Jensen aveva finito quasi tutta la pila, e la sera decise di tornare all’osservatorio. Nel pomeriggio era stato all’Istituto di Tecnologia, per assistere a un interessante seminario sulle braccia a spirale delle galassie. C’era stata una discussione piuttosto accesa anzi, ne aveva parlato con gli amici durante la cena e nel viaggio di ritorno all’osservatorio. Gli venne in mente che doveva terminare l’ultimo gruppo di lastre, quelle impressionate la notte del 7 gennaio.
Terminò la prima del gruppo: era un lavoro meticoloso. Anche questa volta ciascuna «possibilità» si risolveva in una stella oscillante ordinaria e nota. Non vedeva l’ora di farla finita; preferiva starsene sulla montagna dietro il suo telescopio, piuttosto che rovinarsi gli occhi con quel dannato strumento, pensava chinandosi sull’oculare. Toccò il pulsante e nel campo visivo comparve il secondo paio di lastre. Un attimo dopo Jensen armeggiava con le lastre, tirandole fuori dalla loro custodia: Le portò alla luce, le esaminò a lungo, poi tornò a metterle nel blink, e di nuovo toccò il pulsante. In un fitto campo stellato c’era una grande macchia scura, quasi esattamente circolare. Ma la cosa più sorprendente era l’anello di stelle intorno alla macchia. Eccole lì, oscillavano, tutte. Perchè? Non riusciva a trovare una risposta soddisfacente, perchè non aveva mai visto nè sentito parlare prima di una cosa del genere.
Jensen si accorse che non riusciva a continuare il lavoro; era troppo scosso da questa singolare scoperta. Aveva solo voglia di parlarne a qualcuno. Naturalmente pensò subito al dottor Marlowe, uno dei membri anziani del loro gruppo. Gli astronomi di solito si specializzano su questo o su quell’aspetto della loro materia, ed anche Marlowe era specializzato, ma soprattutto era un uomo dalle sterminate cognizioni generali. Forse proprio per questo faceva meno errori degli altri. Era pronto a parlare di astronomia a tutte le ore del giorno e della notte, e ne avrebbe parlato con grande entusiasmo a chiunque, all’insigne scienziato suo pari e al giovanotto appena alle soglie della carriera. Era naturale perciò che Jensen desiderasse di raccontare a Marlowe la sua curiosa scoperta.
Con grande cura mise le due lastre in una scatola, spense le luci dello scantinato, tolse la corrente all’apparato elettrico e andò a dare un’occhiata al quadro murale fuori della biblioteca. Poi consultò la lista dell’osservatorio. Con grande soddisfazione scoprì che Marlowe non era nè a Monte Palomar nè a Monte Wilson. Certo, quella sera avrebbe anche potuto essere uscito. Ma Jensen ebbe fortuna, perchè una telefonata gli confermò che Marlowe era in casa. Quando gli spiegò che voleva parlargli di qualcosa di strano che aveva scoperto, Marlowe fece: