«Vieni subito Knut, ti aspetto… No, va bene, non stavo facendo nulla di speciale.»
È facile immaginare in che stato d’animo fosse Jensen, se si pensa che chiamò un tassi che lo portasse a casa di Marlowe. Uno studente con una borsa annua di 2000 dollari di solito non viaggia in tassì, e questo è anche più vero nel caso di Jensen, il quale faceva economia perchè voleva girare i vari osservatori degli Stati Uniti prima di tornare in Norvegia; e poi doveva anche comprare dei regali. Ma in questo caso non gli venne nemmeno in mente il problema del denaro. Giunse ad Altadena stringendo le sue lastre e chiedendosi se per caso non stesse per far la figura dello sciocco. E se avesse commesso uno stupido errore?
Marlowe lo attendeva.
«Entra, entra,» gli disse. «Bevi qualcosa? La prendete sul serio voi norvegesi, no?»
Knut sorrise.
«Non sul serio quanto lei, dottor Marlowe.»
Marlowe indicò a Jensen una poltrona presso il caminetto (il caminetto piace molto a chi abita in una casa col riscaldamento centrale), fece scendere un gran gattone da un’altra poltrona, si mise a sedere.
«Son contento che tu abbia telefonato, Knut. Mia moglie stasera è uscita ed io non sapevo proprio che fare.»
Poi, secondo il suo solito, entrò dritto in argomento: la diplomazia e le sottigliezze della politica gli erano sconosciute.
«Ebbene, che cos’hai là dentro?» chiese additando la scatola gialla di Jensen.
Con un’aria piuttosto melensa Jensen tirò fuori la prima delle due lastre, quella impressionata il 9 dicembre 1963 e gliela porse senza dire una parola. La reazione fu immediata.
«Perdio!» esclamò Marlowe. «Presa col 18 pollici, vero? Sì, ecco, c’è qui segnato a margine.»
«Crede che ci sia qualcosa di sbagliato?»
«No, non mi pare.» Marlowe tirò fuori di tasca una lente d’ingrandimento e si mise a scrutare la lastra.
«Mi sembra proprio a posto. Non ci sono difetti nella lastra.»
«Mi dice perchè è rimasto così sorpreso, dottor Marlowe.»
«Ebbene, non era questa la cosa che volevi fermi vedere?»
«Non in sè. La cosa strana è il confronto con una seconda lastra che ho preso un mese dopo.»
«Ma anche questa da sola è piuttosto strana,» disse Marlowe. «E l’hai tenuta nel cassetto per un mese! Peccato che tu non me l’abbia mostrata subito. Ma naturalmente tu non potevi sapere.»
«Eppure non capisco perchè lei debba restare tanto sorpreso davanti a questa sola lastra.»
«E allora guarda questa macchia circolare scura. Evidentemente è una nube nera che oscura la luce delle stelle retrostanti. Globuli di questo tipo non sono insoliti nella Via Lattea, ma di solito hanno proporzioni modeste. Perdio, guarda questa! È enorme: devono essere almeno due gradi e mezzo!»
«Ma dottore, ci sono moltissime nubi più grandi di questa, specialmente nella regione del Sagittario.»
«Ma se guardi con attenzione quelle che paiono nubi grandissime, ti accorgi che sono costituite da ammassi di nubi più piccole. Quella che hai qui, invece, sembra una nuvola sferica. Mi chiedo davvero come ho potuto farmi sfuggire una enormità simile.»
Marlowe guardò ancora una volta i segni sulla lastra.
«È vero che è a sud, e a noi non ci interessa molto il cielo invernale. Ma anche così non capisco come ho fatto a non vederla quando lavoravo sul Trapezio di Orione. È stato appena tre o quattro anni fa e non avrei potuto dimenticare una cosa del genere.»
Questo errore di Marlowe — infatti bisognava proprio dire così sorprese molto Jensen. Marlowe conosceva il cielo e tutte le strane cose che vi si trovano alla perfezione, proprio come conosceva i viali e le strade di Pasadena.
Marlowe tornò al bar a riempire i bicchieri. Allora Jensen fece:
«Mi son preoccupato quando ho visto la seconda lastra.»
Marlowe la guardò appena dieci secondi e poi riprese la prima. Al suo occhio esperto non occorreva certo il blink per vedere che nella prima lastra la nube era circondata da un anello di stelle che invece non comparivano, o quasi, nella seconda lastra. Continuò a fissarle soprappensiero.
«Queste lastre le hai impressionate in maniera normale?»
«Credo di sì.»
«E infatti mi sembrano a posto, ma non si può mai esserne sicuri.»
Marlowe si interruppe all’improvviso e si alzò in piedi. Come faceva sempre quand’era agitato, sbuffava dalla bocca enormi nubi di fumo che odorava d’anice; era una qualità di tabacco sudafricano. Jensen si chiedeva perchè non andasse a fuoco il fornello della pipa.
«Può darsi che sia accaduto qualcosa di strano. La cosa migliore è di impressionare subito un’altra lastra. Chissà chi c’è su stanotte.»
«A Monte Wilson o a Monte Palomar?»
«A Monte Wilson, Palomar è troppo lontano.»
«Se non sbaglio al 100 pollici c’è uno di quegli astronomi forestieri. Al 60 dovrebbe esserci Harvey Smith.»
«Senti, la cosa migliore è che ci vada di persona. A Harvey non dispiacerà di lasciarmelo un minuto. Naturalmente non riuscirò a cogliere tutta la nube, ma mi bastano i campi stellari ai margini. Conosci le coordinate esatte?»
«No. Le ho telefonato subito dopo che ho visto le lastre al blink. E non ho perso tempo a misurarle.»
«Be’, non importa, possiamo farlo ora. Ma non occorre che tu perda altro tempo. Hai bisogno di dormire Kliut. Vuoi che ti conduca al tuo appartamento? Lascio un biglietto a Mary per dirle che sarò di ritorno solo domattina.»
Quando Marlowe lo lasciò al suo alloggio, Jensen era agitato, e prima di spegnere la luce scrisse a casa: una lettera ai genitori per raccontare in breve la sua strana scoperta e un’altra a Greta per dirle che gli pareva d’essere inciampato in qualcosa di importante.
Marlowe si recò agli uffici dell’osservatorio. Chiamò Monte Wilson al telefono e chiese di Harvey Smith. Appena sentì il morbido accento meridionale di Smith disse:
«Sono Geoff Marlowe. Senti, Harvey, c’è qualcosa di strano, tanto strano che ti prego di fermi usare il 60 pollici, stanotte… Cos’è? Non lo so. Appunto questo voglio scoprire… Riguarda il lavoro di quel giovanotto, Jensen. Vieni qua domattina alle dieci e sarò in grado di dirti qualcosa di più… Va bene, ti debbo una bottiglia di whisky. Ti basta?… Benissimo! Di’ all’assistente notturno che arrivo verso l’una. Grazie!»
Poi Marlowe chiamò Bill Barnett di Caltech.
«Bill, qui parla Geoff Marlowe dall’ufficio dell’osservatorio. Volevo dirti che domattina alle dieci, qua all’osservatorio c’è una riunione piuttosto importante. Se non ti dispiace portati dietro qualche teorico… No, non c’è bisogno che siano astronomi. Porta dei ragazzi svegli… No, non te lo posso spiegare ora. Domattina ne saprò di più. Ora vado al 60 pollici. Ma stai tranquillo, se domani ti sembrerà che ti abbia convocato per nulla, puoi chiedermi di pagare una bottiglia di whisky… Benissimo!»
Canticchiava fra sè — era un segno d’agitazione — mentre scendeva in fretta nello scantinato, proprio là dove Jensen aveva lavorato nel pomeriggio. Passò tre quarti d’ora a misurare le lastre di Jensen. Quando infine fu convinto di sapere con esattezza dove puntare il telescopio, uscì, saltò sull’auto e partì per Monte Wilson.
Il dottor Herrick, direttore dell’osservatorio, fu assai sorpreso quando trovò Marlowe che lo attendeva, alle sette e mezzo del mattino seguente, nel suo ufficio. Il direttore di solito cominciava la giornata due ore prima dei suoi dipendenti «per finire qualche lavoretto» — così diceva lui. Marlowe era l’opposto: fino alle dieci e mezzo, a volte anche più tardi, non si faceva mai vedere. Eppure quel giorno Marlowe era seduto alla sua scrivania ed esaminava con cura una decina di positive. Nè diminuì la sorpresa di Herrick quando seppe cosa aveva da dirgli Marlowe. I due uomini discussero animatamente per un’ora e mezzo. Uscirono verso le nove, fecero una rapida colazione e tornarono in tempo per preparare la riunione che si doveva tenere in biblioteca alle dieci.