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Chiuse gli occhi, il viso rivolto verso il soffitto, l’unica treccia (era convinta così di assomigliare alla signorina Sebire) stesa attraverso il cuscino. Se qualcuno la beccava nel dormitorio erano guai; per fortuna gli insegnanti erano tutti troppo indaffarati con i genitori per avere il tempo di venire a controllare i piani superiori, altrimenti non avrebbe corso il rischio. Le piaceva ogni tanto rimanere da sola, l’unico guaio era che dopo un po’ si sentiva sola.

Janette sospirò e si immaginò Kelly che marciava sicura a ritirare i propri trofei; migliore oratrice nei dibattiti, voto più alto in matematica e fisica, premio per i migliori progressi nel campo dei computer, ecc, ecc, ecc. Quanto le sarebbe piaciuto essere come lei! Ed era anche tanto bella. Non bisogna essere invidiose, si disse Jeanette, ma qualche volta, qualche volta avrebbe voluto essere come la sua compagna. Non lo sarebbe mai stata però, questo era un dato di fatto, ma tutti avevano per lo meno un pregio, qualcosa che li rendeva uguali agli altri; per quanto la riguardava era solo un po’ difficile scovarlo. Ma un giorno si sarebbe rivelata al mondo, forse tra non molto, forse quando le sarebbero cominciati i cicli sarebbero scomparsi quegli orrendi brufoli, e magari le sarebbe cresciuto anche il seno. E forse avrebbe sognato un po’ meno e forse sarebbe anche diventata più alta e…

… le sculture mobili si stavano muovendo.

Ma certo, le finestre erano spalancate per lasciar passare un po’ d’aria, una brezzolina muoveva le figure di carta. Jeanette si arrabbiò con se stessa. Le altre la canzonavano spesso perché dicevano che aveva paura della sua stessa ombra, e qualche volta era vero. Non le piacevano gli angoli bui, i film paurosi, odiava tutto ciò che strisciava, i cigolii della vecchia palazzina, lo sbattere delle imposte che la tenevano sveglia mentre attorno a lei tutte dormivano tranquillamente. E le ombre soprattutto, anche sotto ai letti.

Jeanette si drizzò sul letto ma non posò subito le gambe a terra; prima si chinò a controllare sotto il letto.

Soddisfatta del fatto che non vi fossero bestie strane che la potessero trascinare nel loro antro oscuro Jeanette posò i piedi per terra. Rimase ancora seduta sul letto ascoltando attentamente, senza sapere bene che cosa stesse ascoltando. Forse era il rumore del parquet nelle stanze vicine, oppure quel misterioso grattare che poteva sì essere un topolino, ma forse no, poteva essere una cosa immonda che vagava per i corridoi trascinando il proprio corpo viscido, oppure una figura gigantesca ammantata di nero in agguato dietro alla porta, che attendeva con le unghie protese, aguzze…

Smettila! Di nuovo si stava mettendo paura da sola. C’erano delle volte in cui Jeanette odiava quella sua sciocca fantasia che le faceva vedere fantasmi di sua pura invenzione. Era pieno giorno, la scuola era piena di gente, e lei si stava tormentando apposta con queste lugubri fantasie. Jeanette allungò i piedi infilandoli dentro le scarpe, aveva deciso che era ora di raggiungere gli altri.

Aveva calzato una scarpa tenendola ferma con l’altro piede quando udì dei passi avvicinarsi. Guardò con curiosità i peli del braccio drizzarsi, la sensazione di paura le prese anche la schiena facendola rabbrividire.

Si tese tutta. Ascoltò. Guardò la porta spalancata del dormitorio.

I passi erano lenti, pesanti. Si avvicinavano. Il suono la ipnotizzava.

Sentiva il cuore che le batteva forte, molto forte.

I passi si fermarono, e per un attimo ebbe l’impressione che le si fosse fermato anche il cuore.

Ma sentiva davvero qualcuno respirare dietro la porta?

Si alzò lentamente, sfilandosi la scarpa. Rimase immobile accanto al letto, quasi senza respirare, il Pierrot la fissava con il pianto congelato sul viso.

Non avrebbe voluto avvicinarsi alla porta, ma forse per vincere la paura si diresse piano piano verso l’uscita. I piedi con le sole calze erano silenziosi sul legno lucido mentre avanzava con circospczione. Aveva le mani chiuse a pugno.

Ebbe ancora un’esitazione prima di varcare la soglia. Non era mai stata tanto spaventata in vita sua.

Dietro alla porta qualcosa aspettava.

I saggi di ginnastica e di ballo erano terminati, la signorina Piprelly aveva fatto il suo discorso breve e succinto prima di presentare il consigliere Platnauer. Il discorso di questi fu più pacato e aveva per lo meno un accenno di umorismo. Nonostante ciò Childes ebbe difficoltà a concentrarsi su quel che veniva detto perché stava osservando senza sosta la folla riunita davanti a sé, cercando il pur minimo segnale che qualcuno non fosse quello che sembrava.

Non solo non aveva veduto niente di sospetto, ma non sentiva niente di strano. Era tutto a posto, spettatori attenti, tempo splendido, anche se forse un po’ troppo caldo. Ottimi i saggi delle alunne, e i discorsi erano stati meno noiosi del solito.

Era appena iniziata la distribuzione dei premi quando un movimento attirò il suo sguardo. Sbatté gli occhi, non era sicuro che non fosse solo un gioco di luce, un riflesso in uno dei vetri della palazzina dall’altro lato del prato. Eppure c’era qualcosa che prima non aveva notato, qualcosa che aveva sentito più che visto. Gli occhi gli caddero in un punto su in alto dell’edificio davanti a lui.

C’era un viso, affacciato a una delle finestre dell’ultimo piano.

Troppo lontano per poter vedere bene, ma per istinto sapeva a chi apparteneva quel volto.

Il sangue gli si gelò nelle vene.

Childes era stordito, non riusciva a muoversi, incollato alla sedia da una paura di piombo. Aprì la bocca per parlare, gridare, ma sembrava che la sua gola fosse stretta in una morsa d’acciaio, gelida, che gli bloccava la laringe.

Il volto era immobile, pareva che avesse gli occhi fissi su di lui.

Poi la macchia bianca scomparve.

Childes si alzò barcollando, le gambe sembravano pesargli troppo per riuscire a muoverle, riuscì comunque a scavalcare la panca. Si guardò attorno cercando Overoy, la semiparalisi dovuta allo shock stava passando, ma non riuscì comunque a vederlo. Non poteva aspettare. Qualcosa di grave accadeva dentro la scuola, qualcosa di terribile che lo faceva rabbrividire di terrore.

Costeggiò le file di sedie e si affrettò lungo il vialetto inghiaiato verso l’edificio. Dietro di lui scrosciarono applausi mentre una delle ragazze saliva le scale per andare a ritirare il suo premio. In pochi notarono la sua figura frettolosa, tra questi Overoy che si era fermato sotto un albero ai margini del prato da dove aveva goduto di una posizione dominante. Sfortunatamente era dall’altro lato del pubblico, a una certa distanza dal sentiero che stava seguendo Childes; il poliziotto decise di aggirare l’ostacolo per poi raggiungere Childes sul retro dell’edificio. Overoy si infilò velocemente la giacca e s’incamminò verso l’ingresso principale della scuola.

Childes imboccò la prima porta che trovò, e rabbrividì involontariamente, all’interno l’aria era più fresca. Salì una breve rampa di scale e si trovò nell’atrio che occupava la parte anteriore dell’edificio. Il volto si era affacciato a una finestra del terzo piano dove si trovavano i dormitori delle ragazze più grandi. Si avviò verso la scalinata principale, i suoi passi risuonavano sul legno lucido del parquet.

Passò davanti alla biblioteca, alla saletta docenti e alla sala d’attesa per i genitori prima di raggiungere l’ampia scalinata. Allungò il collo come se si fosse aspettato di vedere qualcuno affacciarsi su in alto. Le scale erano deserte.

Overoy imprecò, sottovoce. Aveva dimenticato che il collegio non aveva una pianta regolare, nel tempo vi erano state varie aggiunte e modifiche ed egli si trovò separato da Childes dalla bianca struttura della torre che si univa ad angolo retto all’edificio principale. Poteva scegliere di girarci intorno oppure di entrare. Vide una porta e l’aprì.