Quando lo aveva ricevuto nel suo studio quel lunedì mattina, appena tre giorni prima, l’intensità del suo potere era sconcertante. Sembrava udire appena le sue parole, eppure non era distratto. Era evidentemente alle prese con una confusione interiore ma perfettamente conscio di ciò che succedeva intorno a lui. Era sicuramente scosso da quanto gli era capitato, la terribile esperienza di Jeanette e l’incidente con la signorina Sebire, tutto nello stesso giorno; sentiva comunque che il suo stato di evidente confusione non riguardava questi episodi. Quest’uomo stava sondando, lei lo aveva sentito dentro la sua mente, ma la ricerca era casuale, senza una precisa direzione. Lui aveva riconosciuto in lei il potere, ma non aveva detto nulla. In certi momenti lei aveva sentito una vibrazione circondarlo, un campo di energia psichica che si contraeva e si espandeva di continuo. La fluttuazione la turbava profondamente ma lui sembrava non accorgersi di queste invisibili emanazioni.
Il suo corpo sussultò violentemente quando la terribile violenza che si stava per scatenare la colpì, attraversandole il cervello come una lama di coltello rovente. Non pensava più al passato, il vero incubo era presente, in quel preciso istante.
Nella scuola si aggirava una presenza malvagia.
Le ombre nella stanza si fecero più cupe, i rintocchi dell’orologio più forti, e sembravano volerla intimidire, impedirle di ragionare.
La signorina Piprelly pensò di chiamare subito la centrale di polizia. Si alzò della sedia: dovette sforzarsi perché le ombre e il frastuono dell’orologio la sconvolgevano. Si avviò barcollando verso il telefono, ma non alzò il ricevitore, la mano sospesa a mezz’aria.
Cosa poteva dirgli, “per favore venite, sono sola e spaventata, c’è qualcuno nella scuola, qualcuno che vuole farci del male, le ragazze stanno dormendo e io ho visto la morte sui loro volti e sono così giovani, così innocenti, non hanno ancora vissuto, e non sanno di essere in pericolo…”: poteva dire così alla polizia?
Le avrebbero subito chiesto se aveva visto qualcuno. Il loro uomo non aveva comunicato niente di anormale, l’avrebbero chiamato via radio, ordinandogli di controllare di nuovo, e di fare rapporto. “Nessun problema signorina,” avrebbero detto — una vecchia zitella che aveva paura delle ombre —, “tutto a posto, il loro uomo era di guardia, poteva richiamare quando voleva!”.
Poteva mentire forse, dire che aveva sentito dei rumori. E se poi arrivavano in forze e non c’era segno di intrusi, allora cosa sarebbe successo? Sorrisetti ironici, sguardi di commiserazione? Risate divertite sulla via del ritorno?
Quest’ultimo pensiero la fece rinsavire. Drizzò la schiena e atteggiò il viso a maggiore durezza. Non poteva cedere così alla preoccupazione. La signorina Piprelly si diresse verso la porta. Avrebbe guardato in giro lei prima; poi, se trovava qualche traccia avrebbe chiamato la polizia. La minima traccia…
Ma quando aprì la porta per un attimo si perse di coraggio. Gli sembrò di essere stata sfiorata da una mano scheletrica.
Childes si svegliò.
Non c’era stato alcun incubo, nè demoni notturni, nessun orrore lo aveva destato. Aveva semplicemente aperto gli occhi di colpo ed era perfettamente sveglio.
Rimase steso al buio ascoltando la notte. Non c’era nulla che lo disturbasse, solo il vento, una brezza, un sussurro nell’aria.
Si alzò comunque dal letto, era nudo e sentì subito freddo. Rimase seduto sulla sponda incerto, indeciso, sentiva un’inquietudine strana roderlo dentro. La finestra era una macchia grigiastra nell’oscurità. Attraverso il vetro le ombre scure delle nubi si spostavano lentamente.
Cercò a tastoni gli occhiali, li inforcò e andò verso la finestra. Strinse forte il davanzale sentendo una morsa gelida e cattiva stringergli il petto.
Lontano, sulla scogliera, il La Roche era illuminato di rosso.
Ma non era come prima, stavolta non era il sole calante a illuminare gli edifici della scuola. Stavolta erano fiamme, che si alzavano lungo i muri uscendo dalle finestre in lunghe lingue di fuoco.
Mentre Estelle Piprelly scendeva, i passi insolitamente rumorosi nel silenzio dei corridoi e delle scale, colse un odore inaspettato. Un odore insolito perché fuori contesto rispetto all’odore del legno stagionato, della cera e dei corpi umani che vi regnava quotidianamente.
Questo odore non faceva parte di questa normalità. Sostò, poggiando la mano sul robusto corrimano, ascoltò quel silenzio spaventoso. Il puzzo, ancora indistinto poiché la fonte era lontana, era dolciastro e acidulo al tempo stesso, e le faceva venire alla mente una baracca in fondo al parco dove venivano riposti gli attrezzi da giardinaggio. Una vecchia baracca di mattoni piena di utensili, di tosaerba, di motoseghe e cose simili, che odorava sempre di terriccio, di grassi, e… di benzina.
Ora che l’aveva identificato l’ansia si moltiplicò; quel puzzo significava che forse le sua angosciose intuizioni non erano ingiustificate. Sentì improvvisa l’urgenza di ritornare sui suoi passi, risalire le scale fino all’ultimo piano dove dormivano le sue protette, svegliarle e condurle lontano. Ma una forza irresistibile la spingeva in basso costringendola a rinunciare al suo intento.
La curiosità si opponeva al raziocinio. Sentiva il bisogno di dare fondamento ai suoi sospetti. Non voleva essere accusata di aver gridato al lupo. Ma una vocina, appena un sussurro, sepolta nelle profondità della sua coscienza le suggeriva altrimenti, di seguire il morboso impulso di trovarsi faccia a faccia con quel fantasma che l’aveva costantemente ossessionata nei volti sconosciuti di coloro che sarebbero morti.
Proseguì la discesa.
Arrivata all’ultimo gradino, dove si apriva l’atrio con corridoi che si allungavano d’ambo i lati, sostò di nuovo e annusò l’aria arricciando il naso: l’odore ora era pungente. Le tavole del pavimento erano umide di un liquido appiccicoso. Dalle scale sullo sfondo arrivava della luce che rendeva più cupe le ombre in fondo ai lunghi corridoi. A una decina di metri davanti a lei le grandi porte doppie erano chiuse, sul muro accanto tutta una serie di interruttori.
Dieci metri non erano molti. E allora perché quello spazio le sembrava insormontabile? E perché il buio le pareva pieno di oscure minacce?
Perché era diventata una sciocca zitellona che tra non molto avrebbe controllato sotto il letto tutte le sere. No, si disse, non era questa la ragione. Quel buio era minaccioso, quello spazio era davvero incolmabile.
Ma non aveva alternative. Ritornare di sopra significava che sarebbe stato dato fuoco alla benzina. Accendere le luci poteva far uscire allo scoperto l’intruso, forse spaventarlo. Comunque le luci avrebbero attirato l’attenzione del poliziotto di guardia.
Un passo dopo l’altro sul pavimento viscido, e iniziò il lungo viaggio verso l’entrata. Si fermò di nuovo, a metà strada. Aveva udito qualcosa, o lo aveva piuttosto sentito? C’era qualcuno nel corridoio di sinistra? Non c’era un’ombra che si spostava nel buio? Riprese il cammino, il sottile strato di liquido era appiccicoso contro le suole. Allungò il passo nell’avvicinarsi alle porte.
C’era qualcuno in agguato nel buio, qualcuno che desiderava il male della scuola e suo. La sensazione di questa presenza era intensa, le opprimeva il petto facendola respirare a fatica. Il cuore aveva accelerato i battiti, le gambe tremavano così come le mani tese verso gli interruttori. La presenza era vicina, sempre di più, ancora invisibile ma protesa verso di lei, quasi la toccava.