Fuori! Doveva uscire di lì.
Avrebbe trovato la guardia, l’avrebbe chiamata, avvertita. Lui avrebbe saputo cosa fare, prima che la benzina prendesse fuoco! Li avrebbe salvati!
Era alle porte, quasi ci sbatté contro, cercò le maniglie, il catenaccio, piangendo di sollievo, quasi libera.
Si chiese brevemente come mai non fossero chiuse a chiave poi girò le maniglie e fu fuori, con un piccolo grido di trionfo e di paura. L’aria fredda le scompigliò i capelli.
Era lì, una forma indistinta sullo sfondo della notte, immobile e impassibile sulla soglia.
Le gambe della signorina Piprelly cedettero di colpo e le uscì appena un gemito quando la figura si protese verso di lei.
Childes frenò bruscamente la macchina davanti ai cancelli del La Roche, le mani irrigidite attorno al volante. Spalancò gli occhi quando guardò in fondo al viale illuminato dai fari. Gli edifici del college erano immersi nell’oscurità, la facciata bianca dell’edificio principale era ora di un grigio plumbeo contro il cielo denso di nuvole. Non vi erano fiamme alle finestre, nessun fuoco bruciava.
Non aveva udito sirene durante il percorso. Non aveva incrociato altri veicoli lanciati come lui disperatamente verso la scuola. Le strade erano vuote. E perché mai avrebbe dovuto accorrere qualcuno se non c’era nessun incendio? Scosse la testa, perplesso. Poi si accorse della macchina della polizia accanto ai cancelli, con le luci spente. Childes innestò la marcia e guidò la macchina lentamente avvicinandosi, quasi non volesse disturbare. L’auto era vuota.
O no?
Perché quel bisogno improvviso di scendere dalla sua auto a dare un’occhiata? E perché nello stesso tempo l’impulso di fuggire da questo luogo temibile appena illuminato dalla luna nascosta dietro i nuvoloni immobili e minacciosi?
Già… perché? rispose una voce cupa proveniente da un altro mondo.
Un fulmine lampeggiò brevemente, illuminando la massa densa delle nubi, una brezza vivace soffiò dal mare agitando le foglie e i rami, i fari della macchina formavano un solco luminoso verso la palazzina imponente sul fondo. Childes non aveva più dubbi, avrebbe guardato nell’auto poi sarebbe andato alla scuola; la storia era già stata scritta, aveva uno svolgimento predeterminato. Lui era ancora libero di scegliere, poteva cambiare idea quando voleva, eppure il destino gli intimava di andare. Lui lo avrebbe fatto, ma senza soccombere. Pregò di non soccombere.
Scese dalla Renault girandole attorno verso l’altra auto. Guardò attraverso il finestrino aperto. Il poliziotto era scivolato verso il basso, le ginocchia sospinte in alto dietro lo sterzo. In un attimo di panico isterico Childes credette che stesse dormendo, ma la macchia scura che gli si allargava sulla camicia bianca come uno sparato nero indicava diversamente. Allungò la mano e lo toccò stando attento ad evitare la viscida sostanza che defluiva dal collo. Non ci fu alcuna reazione, come del resto si aspettava. Prese la maniglia della portiera e tirò, aprendo lo sportello quel tanto che bastava per far accendere la lucina interna.
Il mento dell’uomo in divisa era appoggiato al torace e nascondeva alla vista la ferita sul collo. Era un po’ grosso come poliziotto, la lucina sul soffitto si rifletteva sulla sua calvizie. Aveva gli occhi mezzi aperti come se stesse guardando in basso verso la macchia cremisi sulla camicia. Le braccia serenamente distese lungo i fianchi, le mani aperte, rilassate; evidentemente la morte era sopraggiunta così rapida da inibire l’opportunità di una lotta. Appariva sereno, ignaro del proprio fato.
Childes richiuse la portiera, il tonfo sordo suonò come il coperchio di una bara. Si appoggiò al tetto della macchina con la testa tra le braccia incrociate. La vittima non si era minimamente resa conto di quello che le stava per accadere, poco abituata forse a una violenza siffatta. Stava sorvegliando la scuola, il gruppo di edifici, e forse i cespugli vicini attraverso il finestrino aperto in modo da poter udire anche eventuali suoni anomali. Non aveva quindi tenuto d’occhio la strada dietro a sé. Un coltello, un rasoio, una lama d’acciaio affilato, era sbucata attraverso il finestrino per recidergli la gola di netto, un movimento veloce, due, tre secondi appena. Se il poliziotto avesse tentato di gridare non sarebbe uscito altro che un gorgoglio strozzato da quel taglio profondo.
Era qui, nella scuola, l’essere che conosceva con il nome di MOON.
La coscienza di ciò gli crebbe dentro bloccandogli lo stomaco e i polmoni, che quasi non riuscivano più a pompare ana. Alzò la testa e osservò gli edifici in fondo al viale; i fari illuminavano solo la ghiaia, non riuscivano a penetrare fino in fondo quel buio tetro e pauroso.
Nella sua testa risuonò un gemito non suo. Era sfuggito a qualcuno che era dentro il college: dietro quelle mura austere qualcuno era terrorizzato a morte.
E qualcosa, lì dentro, godeva di quel terrore.
In quel momento dietro le finestre del pianterreno dell’edificio principale un bagliore arancione si propagò. L’incendio non era più soltanto una precognizione visiva della sua mente, era una terribile realtà.
La signorina Piprelly giaceva sul pavimento, incapace di muoversi, la testa piegata a un angolo grottesco. Era cosciente ma terrorizzata. Sapeva, ma in modo stranamente distaccato — poiché non c’era dolore, solo paralisi — di avere il collo rotto, le ossa spezzate facilmente da quelle mani rudi e robuste che l’avevano aggredita quando le gambe avevano ceduto. In quell’attimo terrificante la preside aveva compreso che l’intruso si era nascosto proprio dietro la porta d’ingresso quando l’aveva sentita arrivare.
La donna non aveva scorto il suo assalitore, ne aveva avuto solo un’impressione di pesantezza, una pesante massa inarrestabile che avanzava su di lei per ghermirla. Il respiro maleodorante, fetido, un grugnire soddisfatto; la torsione, lo schiocco delle sue vertebre quando la sua testa, serrata tra le grosse mani dai palmi duri come la roccia, era stata completamente girata all’indietro. La forma nera si era poi allontanata goffamente, un tonfo dietro l’altro dei passi sul pavimento. Poi era ritornata, le aveva versato addosso il liquido sui vestiti, tra i capelli, e lei aveva chiuso gli occhi. Giaceva lì, gli arti inutili, la voce appena un mormorio incomprensibile. Le pungevano gli occhi bagnati dal fluido che le scorreva giù dalla fronte. Li batté cercando di schiarirsi la vista ma la sensazione di buciore permaneva impedendole di vedere. Riusciva appena a intravedere la goffa figura in fondo al corridoio, urlò di paura, ma il suono rimase dentro di lei. Aveva intravisto un leggero bagliore. Un fiammifero acceso. Lo vide cadere a terra, e la fiammella sprizzare verso l’alto quando la benzina esplose.
Quella creatura illuminata dalle fiamme sorrideva… sogghignava… verso di lei!
Le fiamme serpeggiarono velocemente — così velocemente! — lungo il corridoio, verso il suo corpo disteso e inzuppato, e immobile…
L’incendio aveva invaso quasi tutto il pianterreno e si stava propagando ancora mentre Childes correva verso l’edificio. Le fiamme erano alimentate dai vecchi legni stagionati delle travi e dei pavimenti. Le finestre riflettevano una alla volta una vampa arancione, rossastra e vicino al nucleo del fuoco scoppiavano verso l’esterno gonfiate dal calore. Ormai vicino Childes si accorse che le fiamme già lambivano il primo piano. Si sentiva lo scampanellio degli allarmi antifumo. Quando arrivò sull’erba bagnata di rugiada quasi perse l’equilibrio; riuscì a rimanere in piedi quasi senza cambiare passo, passando attraverso l’aiuola circolare davanti all’ingresso dove la statua del fondatore del La Roche osservava impassibile l’incendio riflettendo anch’essa il rosso delle fiamme.
Childes salì gli scalini dell’ingresso sempre di corsa, aspettandosi di trovare il portone chiuso a chiave. Spinse una della maniglie di ferro e con sorpresa sentì che la porta cedeva. Una vampata di calore bruciante lo investì ricacciandolo all’indietro.