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La corsa alla porta non fu proprio quello che la preside del college La Roche avrebbe apprezzato, ma Childes non si sentiva né insegnante né educatore, ma solo un consulente di computer di questa e di altre due scuole dell’isola. Finché i ragazzi rimanevano sotto controllo e sembravano assorbire buona parte di ciò che lui spiegava, gli piaceva mantenere una atmosfera rilassata in classe; non voleva che le macchine li mettessero in soggezione, e l’atteggiamento informale era d’aiuto. Di fatto trovava gli alunni di tutt’e tre i college estremamente ben educati, persino quelli del college maschile.

Aveva gli occhi irritati dalle lenti a contatto morbide. Pensò di rimettersi gli occhiali che teneva sempre nella ventiquattrore, a portata di mano per i casi di emergenza. Troppa fatica, decise di no. L’irritazione sarebbe passata.

«Toc, toc.»

Si voltò e vide Amy sull’uscio spalancato.

«Il signore viene fuori a giocare?» scherzò.

«E una proposta?»

«Perché no!». Amy entrò nella stanza; i capelli li teneva in una crocchia, un tentativo di sembrare professorale. Per Childes era un tocco di sensualità in più, così come lo era il vestito verde chiaro, tutto abbottonato, poiché sapeva cosa c’era sotto. «Hai gli occhi stanchi» disse, guardandosi alle spalle verso la porta aperta, poi lo baciò brevemente sulla guancia.

Egli si trattenne dall’impulso di stringerla a sé. «Com’è andata la giornata?»

«Lasciamo perdere. Ho fatto recitazione.» Ebbe un fremito. «Sai cosa vogliono rappresentare a fine trimestre?»

Lui lasciò cadere dalle carte nella valigetta e la richiuse di scatto.

«Dimmelo!»

«Dracula! Te la immagini la faccia di Miss Piprelly quando glielo dirò? Mi terrorizza solo l’idea!»

Lui sogghignò. «Mi sembra ottimo! Sempre meglio di quel Nicholas Nickleby, per l’ennesima volta.»

«Bene! Le dirò che Dracula ha la tua approvazione.»

«Ma io sono solo un esterno. Non faccio parte del corpo insegnanti, la mia opinione non conta.»

«Perché, la mia sì? La preside non sarà proprio un ayatollah, ma qualche parentela c’è di sicuro.»

Lui scosse la testa sorridendo. «Non è poi tanto male. Un pò ansiosa forse. Tiene troppo all’immagine della scuola, ma la posso capire, ci andate giù duro con le scuole private in quest’isoletta.»

«Questo succede quando si è un paradiso fiscale. Comunque hai ragione, la concorrenza è spietata, e il consiglio d’amministrazione non perde occasione per ricordarcelo. Un po’ di solidarietà gliela do, ma…»

Si accorsero di una figura sull’uscio.

«Ti sei dimenticata qualcosa Jeanette?» chiese Jon, chiedendosi da quanto era lì.

La ragazzina lo guardò con timidezza. «Mi scusi, prof, credo di essermi dimenticata la stilo sul tavolo.»

«Okay, cercala pure.»

A testa china, Jeanette entrò nella stanza, a piccoli passi frettolosi. Era una fanciulla dall’incarnato olivastro, gli occhi scuri, un giorno forse sarebbe stata carina. Piccola per l’età che aveva, i capelli informi, senza traccia di uno stile. La giacca blu, troppo grande, la rimpiccioliva ancora di più. Aveva poi una timidezza tenerissima che Childes, qualche volta, trovava un tantino esasperante.

Si mise a cercare attorno al computer che aveva adoperato. Amy la guardava con un leggero sorriso mentre Childes si apprestò a staccare le prese dei macchinari. Jeanette sembrò non avere fortuna e finì per fissare avvilita il computer quasi che questi avesse misteriosamente ingoiato l’oggetto mancante.

«Niente?» chiese Childes avvicinandosi e chinandosi a sfilare la spina.

«Nossignore!»

«Certo che no. Eccola qui per terra.» Inginocchiandosi le porse la penna che aveva perduto.

Con un che di solenne, gli occhi bassi, Jeanette la prese. «Grazie» disse, e Childes fu sorpreso di vederla arrossire e fuggire dalla stanza.

Staccò la spina e si drizzò. «Cos’hai da sorridere?», chiese a Amy.

«Quella povera piccola ha una cotta per te.»

«Jeanette? Ma se è una bambina!»

«In una scuola per sole femmine, un maschio appena appena decente attira per forza l’attenzione, non te ne sei accorto?»

Alzò le spalle. «Un paio di loro mi avranno anche guardato strano, ma… e poi come sarebbe a dire appena decente?»

Con un sorriso Amy gli prese il braccio e lo condusse verso la porta. «Dai. La scuola è finita e io ho proprio bisogno di un po’ di pace. Una corsetta in auto e poi un gin and tonic con tanto ghiaccio prima di andare a casa per la cena.»

«Ancora ospiti?»

«No, no. Solo la famiglia stavolta. A proposito, sei stato invitato a cena questo fine settimana.»

Aggrottò la fronte. «Tuo padre ha cambiato idea?»

«Bah, non direi, gli sei comunque antipatico. Diciamo che c’è lo zampino della mamma.»

«Ah! Bene. Sono proprio contento!»

Lei lo guardò e gli fece una smorfia, stringendogli il braccio prima di affrontare il corridoio. Lungo le scale sentiva la scia di commenti sussurrati da numerose allieve, vide qualche gomitata. Lei e Jon si comportavano in modo molto formale quando erano in pubblico a scuola, ma bastava un passaggio in macchina a far correre le parole.

Raggiunsero le grandi porte a vetri dell’edificio, una struttura relativamente nuova che ospitava i laboratori di scienze, le aule di musica e di lingue. Era separata dall’edificio principale da un vialetto circolare con in mezzo un’aiuola. Al centro di quest’ultima una statua del fondatore del La Roche fissava stoico l’edificio primario come se dovesse tenere il conto di quanti passavano per il portone. Le ragazze si affrettavano attraverso il cortile, chi verso il parcheggio alle spalle del palazzo, chi verso i dormitori e le sale comuni nell’ala meridionale, un chiacchiericcio sfrenato dopo la lunga giornata di disciplina. L’aroma salmastro della brezza che saliva dalle scogliere era un piacere dopo il chiuso delle aule. Childes aspirò profondamente scendendo con Amy le scale di calcestruzzo della costruzione.

«Signor Childes, permette un attimo?»

Entrambi mugugnarono piano, la preside faceva cenno dall’altro lato del viale.

«Ti raggiungo» mormorò, accennando con la mano alla preside.

«T’aspetto vicino ai campi da tennis. Ricordati che sei più grosso di lei.»

«Ah sì? E chi lo dice?»

Si separarono. Childes seguì un percorso diritto, attraversò l’aiuola dirigendosi verso la preside che attendeva. La sua smorfia gli suggerì che avrebbe dovuto aggirarla. L’unica parola che ben si adattava alla signorina Piprelly era «diritta»: stava sempre eretta, si rilassava di rado, e aveva il volto particolarmente angoloso, quasi senza una curva, una morbidezza. Persino i corti capelli, tendenti ormai al grigio, erano pettinati in un’unica piega perfettamente parallela al terreno; le labbra sottili, pur senza essere cattive, non rivelavano tracce di umorismo alcuno. La montatura quadrata degli occhiali si sposava coerentemente alla generale linearità della donna. Persino i seni si rifiutavano di cambiare l’aspetto complessivo e Childes si era chiesto spesso se non fossero trattenuti mediante un artifizio. Quando era in vena di cattiverie aveva anche pensato che non li avesse affatto.

Aveva ben presto scoperto che la professoressa Estelle Piprelly, plurilaureata, sempre con lode, era meno severa di quanto sembrasse, anche se ogni tanto si lasciava andare.

«Mi dica signorina Piprelly» fece lui, fermandosi sullo scalino all’ingresso.

«Potrà sembrarle prematuro, ma sto preparando il corso di studi per l’anno prossimo, Childes, ed è necessario poter offrire tali informazioni ai genitori delle ragazze; inoltre il consiglio di amministrazione preme perché sia prima delle vacanze estive. Allora, stavo pensando che lei potrebbe dedicarci un po’ più del suo tempo dall’autunno prossimo. Pare proprio che i computer siano in auge, nonostante io non ne veda il motivo.»