«Non è reale!» urlò ancora.
Gabby sdraiata, il piccolo corpo bianco, nudo e immobile, come la morte stessa. Lo stomaco squarciato, le viscere appiccicose penzolanti, palpitanti e sguscianti come orrendi parassiti. La bocca si aprì e ne uscirono altre cose striscianti, portandosi dietro la sua piccola esistenza. Le dita erano state mozzate, anche i piedi erano senza dita. Lo chiamava. Papaaà!
Papaaà! Papaaà!
«ILLUSIONE!» gridò forte.
Ma quella cosa che lo sfidava su quella diga rideva, una risata profonda e malefica quanto la mente sconvolta che la emetteva.
La testa gli fu scagliata all’indietro colpita da una forza invisibile. Si toccò la guancia bruciante e sentì caldo. Eppure non si era mossa. Il suo ridacchiare lo tormentò come le fredde dita d’acciaio che lo toccavano stringendogli forte i testicoli. Il dolore lancinante lo fece piegare in due.
«Illusione, bello mio?» disse l’orrenda voce.
Strillò e cadde a terra quando la mano invisibile diventò rovente e gli penetrò nell’ano, bruciandolo su fino alle viscere, stringendogli gli intestini in una morsa di fuoco.
«Illusione?» ripeté.
Malgrado il dolore fosse sovrumano Childes capì che non era realtà; la terrificante intensità del dolore scacciava persino la paura, e con essa quello spaventoso controllo che la donna esercitava su di lui.
Il dolore cessò appena ebbe compreso questa verità. Ma era spossato e accasciato contro il parapetto. Fissò la forma immobile e nera della donna.
«Illusione» ribadì senza più fiato.
La sua ira lo avvolse come una raffica di vento, schiacciandolo al suolo. Ebbe una sensazione pungente agli occhi e vedeva sfocato, si strappò via le lenti a contatto che caddero a terra, due frammenti di plastica accartocciati. Cercò di alzarsi in piedi aggrappandosi al parapetto, gli occhi lacrimavano.
Una pressione sconosciuta lo teneva inchiodato, ma Childes lottò, agguantando l’orlo del parapetto con una mano. Non è reale, non è reale, continuava a ripetere. Poi fece un tentativo per colpire quel mostro. Non con il corpo. Non con i pugni. Con la mente, le tirò un colpo con la mente. Fu sorpreso di vederla oscillare per un attimo.
Lei lo aggredì di nuovo e Childes indietreggiò, sbattendo la schiena contro il parapetto. Ma stavolta gli attacchi non erano così duri, erano meno efficaci.
Sentiva delle voci, distanti e un po’ vaghe. Erano dentro la sua testa, irreali come i pensieri brutali che lei gli inviava. Childes la colpì di nuovo, mentalmente, e la sentì accusare il colpo. Era impossibile, lui sapeva che era impossibile, ma le stava facendo male.
Le voci si fecero più forti, ma venivano sempre da dentro e non avevano a che fare con quella notte.
Sembrava che anche lei ascoltasse, ma lo colpì di nuovo, torturandolo con la mente. Dita crudeli e graffianti, che non erano vere, gli scavavano il volto, gli strappavano le carni. Ne sentiva la pressione ma non il dolore. Una strana vibrazione gli si propagava per tutto il corpo, come se gli scorresse nelle vene e nei nervi al tempo stesso. Le voci aumentavano e diminuivano d’intensità.
«Adesso basta, bello mio.» Udì il suo brontolio gracchiante. «Hai finito di giocare!»
Avanzò verso di lui, le grosse mani protese come morse.
La rabbia lo salvò. Serrò il pugno e colpì forte quel grosso viso carnoso. La prese sul naso ma lei voltò la testa attutendo il colpo. Sgorgò sangue dal suo labbro superiore.
Una delle grosse mani scansò facilmente la sua e poi lei gli fu sopra, schiacciandogli il corpo con il suo peso ingombrante. Il respiro le raschiava in gola. Una manaccia gli premette contro il mento spingendogli la testa all’indietro tanto che era certo che gli si sarebbero spezzate le ossa del collo. La colpì di nuovo al viso ma lei pareva non sentire i colpi. Cercò di divincolarsi, ma lei era troppo forte. La sua schiena fece un arco all’indietro, oltre il parapetto e lui sentì il vuoto aprirglisi sotto.
Tentò di prendere inutilmente a calci l’obeso corpaccio della donna. La mente gli si raggelò. Stava per morire.
Curiosamente si accorse della brezza che gli sfiorava una guancia, ed era conscio dell’abisso alle sue spalle. Aveva gli occhi pieni di immagini della bianca luna sopra di lui, i cui contorni ora gli sembravano sfuocati mentre impassibile illuminava la scena. Sentì il puzzo fetido del suo alito, caldo e amaro per lo sforzo, e l’odore del suo corpo, rancido e sporco. I suoi sensi erano così acutamente scoperti che i suoi pensieri si mescolavano a quelli di lei, le loro psiche individuali quasi fuse in una, e lui la conobbe allora, riconobbe la sua follia, si ritrasse quando gli parve quasi di caderci anche lui. E facendo retrocedere la mente si accorse che le voci stridule erano anche nella sua mente, le udiva anche lei.
Aveva quasi perso l’equilibrio. Lei lo teneva sollevato contro il muretto. Ma si era distratta, cercava con lo sguardo le voci. Scrutò in fondo alla diga, bianca struttura massiccia contro il buio.
Childes riuscì a toccare terra con la punta dei piedi, girò la testa nella stessa direzione, ne seguì lo sguardo.
Vide delle forme annebbiate che si avvicinavano.
Arrivavano dalla notte come lembi di foschia, nebulosi e vaghi, appena un accenno di fisicità che attraversava l’aria, sottili forme eteree senza sostanza.
Ma le voci che Childes sentiva gemere dentro la propria coscienza erano le loro.
Dapprima sembravano un unico essere, un delicato banco di nebbia che si muoveva lentamente lungo la cresta della diga, ma poi avevano preso a separarsi, a dipanarsi in strutture plastiche individuali, entità separate. Ognuna con una propria forma distinta dalle altre.
La presa della donna si allentò, e sul volto grasso e gonfio si dipinse un’espressione perplessa. Ma era assai più che un’incertezza sorpresa, le sue reazioni erano diverse. Childes lo sentiva attraverso la sua mente; era un tremore, una vena di paura. Si liberò della presa e scivolò sul cemento, i polsi stremati dalla fatica, le spalle addossate pesantemente al muretto.
Lei non si era nemmeno accorta del suo divincolarsi, tanto era assorta nell’osservazione di quegli spettri trasparenti. Aveva le ciglia aggrottate che formavano profonde fenditure nella pelle grassa. Teneva le mani chiuse davanti a sé come se stringesse ancora Childes. Fece un passo all’indietro, il corpo obeso posto ad angolo rispetto ai fantasmi avanzanti, solo la testa era sempre voltata nella loro direzione.
Erano sempre più vicini. Childes era indebolito, come se quelle forme incorporee gli succhiassero le forze, sfruttassero la sua energia: ma anche la pazza stava indebolendosi poiché quegli esseri suggevano anche la sua forza.
Cominciò a capire che cosa aveva voluto dire quando aveva descritto il loro potere come meraviglioso. Ma aveva capito veramente quanto poteva essere meraviglioso? Ormai diventava chiaro che cosa fossero queste apparizioni che si andavano lentamente consolidando. Brividi elettrici gli percorsero il corpo e si lasciò andare contro il parapetto.
La donna, la creatura oscena che gli stava di fronte, era in piedi al centro del passaggio come un monolite basso e largo; la luce della luna illuminava le forme pallide che avanzavano, sempre meno incorporee, sempre più vicine.
Il primo era un ragazzo, poco più di un bambino. Un bambino pallido ed emaciato. Un bambino le cui carni erano esangui, gli occhi senza vita e che tremava di freddo. Un piccolo bambino cui era stato squartato lo stomaco, lembi di pelle penzolavano nel vuoto. Aveva la bocca spalancata e dentro c’era della terra, e delle pallide larve che sempre si nutrono di cadaveri. Le labbra decomposte si muovevano senza emettere suoni eppure si udivano le parole.