Sempre prostrato contro il muro Childes guardò la scena, troppo spaventato per muoversi, per gridare, senza più un briciolo di forza. Accanto a lui la figurina silenziosa di Annabel.
La donna era appoggiata al parapetto, le enormi spalle piegate all’indietro nello sforzo di tenere lontane quella mani spettrali. Si voltò per coprirsi il volto e un fiotto di sangue le passò tra le dita scorrendo lungo il muretto, allargandosi in una macchia scura sulle lastre di cemento.
Avvenne tutto così rapidamente che Childes non sapeva bene cosa avesse visto, o forse sentito, il suo cervello insisteva che nulla di tutto questo era reale, che non stava accadendo proprio niente.
Forse era salita sul parapetto per sfuggire quelle figure.
Forse resa ancora più pazza dal dolore aveva deciso di buttarsi.
Oppure le figure che la circondavano avevano sollevato le sue gambe grosse come tronchi e l’avevano buttata giù.
Di fatto Childes vide la sua mole enorme scomparire e udì il suo grido echeggiare nella notte.
Chiuse gli occhi per non vedere quella follia, ma dietro alle palpebre chiuse vedeva ancora tutto. Era tutto ancora fi, nella sua mente assediata.
«Dio, Dio mio…» mormorò e riaprì gli occhi.
Le forme erano leggermente evanescenti, nebulose e tremule, raggruppate al centro del passaggio, ondulanti e trasparenti, come mosse, pareva, dalla brezza. Gli sembrò di udire altri suoni lontani, e delle luci. Annabel era sempre immobile al suo fianco, minuta e triste, il viso un’immagine fievole di infinita solitudine.
Childes esalò un respiro a lungo trattenuto. Chinò la testa sulle ginocchia, le braccia molli ai fianchi, le mani appoggiate sul cemento, le dita gelide e immobili. Era finita. Era esausto, si chiese se avrebbe mai saputo quale era stata la vera natura di quella donna deviata, demente, che aveva rappresentato per lui una tortura senza fine.
Una mente maniacale, sicuramente un mostro. Ma con uno straordinario potere, una forza psichica che aveva del demoniaco. Pregò che quel potere si fosse estinto, finito con la sua vita.
Ma sentì un formicolio insidioso e minaccioso sulla nuca.
Childes alzò la testa e scrutò le nebbie, lì dove era caduta la donna. La sua bocca si spalancò lentamente, gli occhi sbarrati, e presa a tremare come e più di prima.
Vide la grossa mano, le dita spesse che si aggrappavano all’orlo del muretto in una morsa carnosa. E la tenevano sospesa.
«No!» esclamò sottovoce, appena un sospiro sommesso. «No, no!»
Negli occhi spenti di Annabel non era forse apparsa una fiammella, un accenno di preghiera?
Childes si issò sulle gambe, cercò brancolante l’appoggio del muro, sembrava proprio che le gambe si rifiutassero di sostenerlo, ma la forza rifluì con il sangue negli arti intirizziti, quasi con dolore.
Rimase un attimo appoggiato al muretto poi barcollò verso la mano, le nebbie riprendevano le loro forme distinte, si aprivano per lasciarlo passare. Lo guardarono remote e impassibili; il ragazzino nudo stringeva qualcosa di bianco e di viscido nel fragile pugno, e tentava di ficcarselo in petto come se potesse sostituire il suo cuore perduto. La donna dipinta si teneva il ventre in cui si intravedevano strani oggetti angolosi, il torace smembrato era macchiato da due grossi ovali di sangue. Le ragazze e la governante erano corpi carbonizzati con le ossa esposte tra le carni annerite. L’uomo in divisa con i suoi due sorrisi, uno sopra al mento, l’altro sotto. Estelle Piprelly, intera, senza un segno, che guardò Childes negli occhi, comunicandogli una improvvisa emozione. Lo guardavano tutti, attendevano qualcosa.
Arrivò dove la mano artigliava la sporgenza del muro. Le dita sembravano funi oscillanti che sopportavano tutto il peso di quel grosso corpo. Vide il polso carnoso, la manica della giacca rimboccata sul braccio gonfio, che spariva nel buio all’altezza del gomito. Childes si sporse dal parapetto. La luna illuminava il viso tondo appena sotto di lui, coperto di liquido scuro e denso che le colava lungo le guance e il mento. Uno degli occhi un foro nero e vuoto che lo fissava orribilmente. L’altro braccio le pendeva lungo un fianco come se fosse inutilizzabile.
«Aiuta… mi!» disse, con la sua voce aspra e gracchiante, e non era un’implorazione.
La guardò, vide la follia in quel viso largo, i capelli grigi sparpagliati nel vento. Ne toccò nuovamente la pazzia, ne sentì il laidume, l’ossessione maniacale e demenziale dell’adorazione della luna, una malsana giustificazione del male che essa amava perpetrare; un’anima malata e crudele, uno spirito maligno e rancoroso. Quella parola ‘aiutami’ era piena di sarcasmo. Childes lo capì e lo sentì poiché ancora una volta era dentro quella mente, che lo riempì di immagini mostruose e aberranti, malate e schifose; ancora la divertiva quel gioco. Il suo gioco, la sua tortura.
Ma un nuovo sentimento si affacciò nella sua mente depravata quando lui le prese la grossa mano.
La paura attraversò quei pensieri tormentati come una lama in una piaga purulenta, quando lui le scalzò il primo dito.
Un gemito terrorizzato al secondo.
Uno strillo disperato quando spinse le ultime due dita e lei cadde, cadde, cadde giù nella valle, il suo corpaccio rimbalzò contro il calcestruzzo del bacino scivolando fino in fondo alla diga.
Childes udì i tonfi sordi del corpo che si sfracellava. Cadde a terra sui lastroni di cemento. Sentì un improvviso sollievo inondargli i sensi, l’anima di colpo liberata da un’opprimente oscura pressione, una rabbia confusa e disperata. Era troppo stordito per piangere, troppo spossato per essere felice. Osservò le nebbie diradarsi e scompanre.
Una sola rimase.
Annabel si chinò e gli accarezzò il viso con le piccole dita gelide. Dita che non c’erano prima. Una luce l’attraversò e divenne poco più di una foschia, poi scomparve nel nulla.
«Illusione!» mormorò parlando a se stesso.
La luce proveniva dai fari di alcune macchine e dalle torce in fondo al sentiero. Childes la fissò schermandosi gli occhi con una mano. Sentì le portiere delle auto che sbattevano, delle voci, vide apparire delle ombre. Era stranamente curioso di sapere come lo avessero trovato, ma non sorpreso; quella notte niente poteva più sorprenderlo.
Childes non voleva più restare sulla diga, anche ora che le nebbie illusorie si erano disperse e quella rozza mano non stringeva più l’orlo del parapetto. La notte era stata troppo convulsa per non desiderare ora una pace più personale, più solitària. Aveva la testa leggera, e nonostante la confusione mentale, la perplessità acuta, si sentiva quietamente euforico. Aveva bisogno di pensare, di valutare i fatti, ma l’accettazione delle sue capacità straordinarie era totale e completa. Era sicuro che si potessero controllare, utilizzare sotto controllo. Era stata lei a dimostrarglielo, anche se le sue intenzioni erano state malvagie, e la sua follia aveva portato a un uso distorto del potere. Si alzò in piedi e guardò verso la valle, guardò oltre il bacino immobile illuminato dalla luna che non aveva più una luce sinistra e minacciosa, ma tersa e pura. Respirò l’aria fresca e leggermente salmastra; sembrava pulita ora e pareva anche ripulirlo dentro. Si voltò e s’incamminò verso le luci. Overoy fu il primo a raggiungerlo, seguito da Robillard e da due altri poliziotti in divisa.