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Ma siccome pensai che, quasi sicuramente, Belle sapeva dove si trovava Ricky, le diedi un appuntamento.

Lei avrebbe voluto che l’invitassi a pranzo, ma non lo feci per il semplice motivo che mangiare insieme è una cosa che si fa con amici, perciò, anche se ero disposto a rivedere Belle, non ero disposto affatto a mangiare e a bere con lei. Mi feci dare il suo indirizzo e le dissi che sarei andato da lei la sera stessa, alle otto.

Abitava in una casa modesta nella parte bassa della città, e prima di suonare pensai che, forse, rivedendola, si sarebbero ridestati in me gli antichi sentimenti di rancore e di risentimento. Ma non appena mi ebbe aperto la porta mi accorsi che lei stessa e il tempo mi avevano vendicato.

Secondo gli anni che aveva dichiarato d’avere all’epoca del nostro fidanzamento, Belle avrebbe dovuto essere sulla cinquantina, ma probabilmente ne aveva sessanta suonati. Grazie alle continue scoperte della geriatria e dell’endocrinologia, una donna che tenga al suo aspetto e abbia i mezzi per curarsi, può dimostrare trent’anni anche quando ne ha sessanta, ma Belle non si era data questa pena.

Evidentemente si credeva ancora affascinante, perché indossava una vestaglia trasparente che metteva in mostra troppo, rivelando che apparteneva, senza possibilità di equivoco, ai mammiferi, che era troppo grassa, e che non faceva ginnastica.

Ma lei non se ne rendeva conto. Il suo cervello, un tempo così acuto, le aveva dato un concetto assai alto di sé, rendendola incapace di vedersi qual era veramente.

Mi si gettò addosso con strilletti di gioia, e fece per baciarmi, ma io la presi per i polsi, respingendola. — Stai calma, Belle! — le dissi.

— Ma tesoro! Sono così felice… così eccitata… così emozionata di vederti!

— Ne sono convinto — dissi, deciso a non perdere la calma, per quanto non mi sembrasse facile. — Ricordi l’ultima volta che mi hai visto? Mi avevi rimpinzato di droga in modo da farmi sottoporre al Lungo Sonno senza che avessi la possibilità di protestare.

Perplessa e offesa, lei ribatté: — Ma amore mio, l’abbiamo fatto per il tuo bene! Eri così malato!

Capii che era convinta di quello che diceva, perciò tagliai corto. — Già, già. E Miles, dov’è? Come mai sei la signora Schultz, adesso?

— Non lo sai? — rispose lei, spalancando gli occhi.

— Cosa dovrei sapere?

— Povero Miles… povero caro Miles! Dopo che tu ci hai lasciati, Danny, visse soltanto due anni. — La sua espressione mutò di colpo. — Quel farabutto mi ingannava!

— Come mi dispiace! — dissi, chiedendomi come fosse morto Miles. Gli aveva messo l’arsenico nella minestra, forse? Ma decisi di attenermi al motivo per cui ero andato lì, perciò dissi: — E Ricky dov’è?

— Ricky?

— Sì, la figlia di Miles. La piccola Federica.

— Quell’insopportabile oca! E cosa ne so? Andò a stare da sua nonna.

— Dove? E come si chiama sua nonna?

— Dove? A Tucson, o a Yuma… in qualche posto del genere, insomma. Forse era una india. Ma che importa? Caro, non voglio parlare di quella ragazzina impossibile. Voglio parlare di noi

— Un momento. Come si chiamava sua nonna?

— Danny, cominci a diventare noioso. Perché diavolo dovrei ricordarmi una cosa simile?

— Ti ho chiesto come si chiamava!

— Oh… Hanolon, no, Harney… o forse Heinz. Magari era Heinz. O forse Hinkey… Non essere noioso, caro. Beviamo qualcosa e brindiamo alla nostra felice riunione.

— Ho smesso di bere — le dissi, ed era vero. Ora mi limitavo alle birre che gustavo in compagnia di Chuck.

— Devo dire che sei proprio insopportabile! Spero comunque che non ti dispiacerà se bevo io. — Mentre parlava si versò una generosa dose di gin, poi da un tubetto prese due pastiglie: — Di queste ne vuoi? — mi chiese. Riconobbi le pastiglie: euforion, un eccitante che secondo i fabbricanti era innocuo e non produceva assuefazione.

— Grazie, ma sto bene così.

Lei versò le due pastiglie nel gin, e io decisi di forzare i tempi, perché fra poco non sarebbe stata più in grado di rispondere lucidamente alle mie domande.

— Parlami di te — le dissi. — Come ve la siete cavata con quelli della Mannix?

— Eh? Non se ne fece niente, non lo sapevi? — E accalorandosi d’improvviso: — La colpa è stata tutta tua!

— Mia? Ma se dormivo, io!

— Ti dico che fu tutta colpa tua… Quel coso orribile che avevi fatto con il fondo di una poltrona a rotelle, era quello che quelli della Mannix volevano, e non c’era più.

— Cosa dici? Dov’era?

Lei mi fissò con occhi sospettosi: — Tu dovresti saperlo dov’era, dal momento che l’avevi portato via.

— Io? Sei pazza, Belle! Come avrei potuto fare una cosa simile, se ero irrigidito e raggelato nel sonno? Dov’è finito? E quando è scomparso? — Il fatto che il prototipo del Servizievole Sergio fosse stato rubato da qualcuno s’accordava con le idee che m’ero già fatto in proposito, visto che Belle e Miles non se ne erano serviti. Certo era, comunque, che di tutti i miliardi di persone che abitano sulla faccia della Terra io ero proprio l’unico a non averlo potuto portar via. Non avevo più visto il mio Sergio dopo la disastrosa notte in cui quei due mi avevano intrappolato. — Spiegati meglio, Belle. Cosa ti fa pensare che sia stato io a portarlo via?

— Devi essere stato per forza tu! Nessun altro sapeva che si trattava di una cosa importante, e non di un ammasso di ferraglia. L’avevo detto a Miles di non metterlo nel garage!

— Ma se anche qualcuno lo rubò, è improbabile che abbia potuto servirsene. Gli appunti, i progetti li avevate ancora voi.

— No, non è vero nemmeno questo. Quel cretino di Miles aveva messo tutte le carte insieme in un vano dell’apparecchio, quella sciagurata notte.

Non insistetti, convinto che vaneggiasse. Ormai era storia vecchia di trent’anni. Chiesi invece cosa ne fosse stato della Domestica Perfetta, dopo che l’accordo con la Mannix era sfumato.

— Continuammo a mandarla avanti io e Miles finché il capotecnico non ci lasciò. Miles perdette la testa e decise di cedere l’azienda. Così facemmo, e la Ditta passò alla Geary che la possiede tuttora. — Infatti la ragione sociale per esteso della Domestica Perfetta era Società Geary per la Costruzione di Apparecchi Automatici Domestica Perfetta, anche se tutti chiamavano la società solo col suo vecchio nome.

— E il vostro pacchetto azionario? — chiesi. — Cosa ne avete fatto? L’avete venduto cedendo l’azienda?

— Chi ti ha messo in testa questa stupida idea? — mi rimbeccò lei, con le lacrime agli occhi, tormentando un fazzolettino. — Quel porco mi ha imbrogliato. — Si soffiò il naso con aria pensosa, poi ripeté: — Tutti, sì, e il peggiore sei stato tu, Danny… Dopo tutto il bene che ti avevo fatto!

Dovetti constatare che l’euforion non manteneva le promesse, a meno che Belle non godesse a piangere. — In che modo ti ho ingannata, Belle?

— Cosa? Ma se lo sai… E anche Miles mi ha ingannato. Ha lasciato tutto a quella stupida. Dopo tante promesse, dopo che l’ho curato quando si fece male! E non era nemmeno sua figlia! Questo ti basti a provare che mi ha imbrogliato.

Era la prima buona notizia delle serata: anche se quei due erano riusciti a mettere le mani sulle azioni che io avevo affidato a Ricky, tuttavia la piccola aveva avuto, più tardi, la sua parte.

— Belle — ripresi — cerca di ricordare come si chiamava la nonna di Ricky, e dove abitava.

— Dove abitava, chi?

— La nonna di Ricky.

— E chi è Ricky?

— La bambina di Miles. Cerca di pensare, Belle. È importante.

Questo finì di sconvolgerla. Puntandomi contro l’indice, si mise a strillare: — Ti conosco, sai? Tu eri innamorato di lei, quella piccola orribile viperetta… di lei e di quel gatto ripugnante.