Mi accinsi quindi a esaminare le carte relative a Dino Disegnatore. I disegni erano una meraviglia, io stesso non avrei potuto fare meglio. Ammirai l’economia dei meccanismi e l’intelligente sistemazione dei circuiti per ridurre al minimo le parti mobili. Le parti mobili sono infatti come l’intestino cieco: una fonte di disturbi che è meglio eliminare appena possibile.
Si era perfino servito, per lo chassis della sua tastiera, di una tastiera per macchina per scrivere elettrica, e dal disegno avrei detto che si trattava di una IBM di serie. Questo era un particolare tutto a favore dell’intelligenza dell’inventore: non reinventare mai qualcosa che già esiste e ci si può procurare con facilità. Voltai la pagina per vedere il nome di quel ragazzo di genio.
Era D. B. Davis.
8
Telefonai al dottor Albrecht, con il quale non mi ero più fatto vivo dopo l’uscita dal Ricovero. Ci scambiammo i saluti e i convenevoli di rito, poi esposi il motivo per cui l’avevo chiamato.
— Dottore — chiesi — è possibile che il Lungo Sonno provochi amnesia?
Lui esitò un poco prima di rispondere. — È concezionalmente possibile — disse poi — anche se finora non se n’è verificato un solo caso, a quanto ne so. A meno che, naturalmente, non ci fosse un’altra causa.
— E quali sono le cause che possono provocare un’amnesia?
— Sono parecchie. La più comune è il desiderio inconscio che il paziente prova di dimenticare qualcosa, e in questo caso dimentica uno o più fatti che altrimenti gli riuscirebbero insopportabili, o li modifica. Questa, grosso modo, è l’amnesia funzionale. Poi c’è la classica botta in testa: amnesia da trauma. E poi ci possono essere casi di amnesia da suggestione, per effetto di droghe o di ipnosi. Ma perché questa domanda? Non riuscite a trovare il portafoglio?
— No, no… anzi, finora mi sono trovato benissimo, solo che adesso mi sono venuto per caso a trovare di fronte ad alcuni fatti avvenuti poco prima del Lungo Sonno, e non riesco a rammentarli.
— Uhm… siete sicuro che non c’entri nessuna delle cause che vi ho menzionato?
— Potrebbero entrarci tutte — risposi lentamente — meno, forse, la botta in testa… ma anche di questa non sono sicuro. Potrebbero avermi picchiato mentre ero ubriaco.
— M’ero dimenticato di menzionare la più comune delle amnesie temporanee — disse allora lui, seccamente — e cioè quella da alcol. Sentite, figliolo, perché non venite da me a fare due chiacchiere? Così potrete spiegarmi nei particolari tutto quello che vi tormenta. Non sono uno psicanalista e forse non riuscirò a scoprire la causa delle vostre angustie, ma posso indirizzarvi a qualche collega, se sarà il caso. Siccome però le tariffe degli ipno-analisti sono molto elevate, penso che fareste bene a parlare prima con me.
— Dottore, siete stato anche troppo gentile — gli risposi — e non voglio approfittare oltre.
Lui insistette, e io finii col promettergli che la settimana seguente gli avrei telefonato per fissare un appuntamento.
Ormai s’era fatto tardi e quasi tutti se n’erano andati. Io rimasi a lungo a pensare, in silenzio, finché le mie meditazioni vennero interrotte dall’arrivo di Chuck Freudenberg.
— Salute! Credevo che te ne fossi già andato da un pezzo. Svegliati, e vai a finire il sonno a casa.
— Chuck — gli dissi — m’è venuta una magnifica idea. Comperiamo un barattolo di birra e due panini.
Lui ci pensò sopra. — Vediamo… è venerdì… sì, posso concedermi un po’ di svago.
— Allora aspettami, metto questi fogli nella cartella e sono da te.
Bevemmo un paio di birre, mangiammo qualche panino, poi andammo a bere un’altra birra in un locale dove facevano della buona musica, e poi ancora in un altro, che era tranquillo e dove non c’era musica che desse fastidio, e lì, finalmente, raccontai a Chuck dei brevetti che portavano il mio nome. Lui dapprima prese la cosa in scherzo, ma vedendo che io ero maledettamente serio e deciso ad andare a fondo, mi chiese: — E allora, cos’hai intenzione di fare?
— Andrò da uno psicanalista perché mi scavi in fondo all’anima per vedere quello che c’è sepolto.
— Immaginavo che avresti risposto così — commentò lui con un sospiro. — Ma senti un po’, Dan, supponi che l’esame non scopra niente, cosa farai allora?
— È impossibile!
— Dissero così anche a Colombo. Finora non hai preso in considerazione la spiegazione più semplice.
— Quale sarebbe?
Senza rispondermi, fece segno al cameriere di portargli l’elenco dei telefoni. — Che intenzioni hai? — chiesi, mentre lui sfogliava il grosso volume. — Vuoi chiamare un’ambulanza?
— Non ancora. Guarda un po’ qui.
Guardai: l’elenco era aperto sulle pagine dei «Davis», e Chuck mi sottolineò almeno una dozzina di D. B. Davis. — Questo è l’elenco dei tuoi omonimi in una città di circa sette milioni di abitanti — disse. — Prova a estendere le ricerche a tutta la nazione, e mi saprai dire!
— Questo non prova niente — dissi io, un po’ scosso.
— No — ammise lui — dico anch’io che sarebbe una coincidenza davvero più unica che rara se due ingegneri col pallino delle invenzioni con lo stesso nome, e probabilmente della stessa età, avessero lavorato nello stesso periodo intorno a due idee identiche. Ma la legge minima potrebbe provarti, cifre alla mano, che le probabilità esistono. La gente si dimentica sempre che le cose più strane e impensate succedono davvero.
— Allora, secondo te, che cosa dovrei fare?
— In primo luogo non sprecare tempo e denaro con i medici, finché tu non abbia scoperto il nome di battesimo di questo D. B. Davis che ha firmato la richiesta dei brevetti. Poi cerca anche il secondo nome, perché se Daniel è un nome comune, il secondo sarà difficilmente Boone. E la terza cosa, ma sarebbe la prima in ordine di tempo, è dimenticare tutto questo pasticcio per un po’, e ordinare un’altra birra.
Così fu fatto, almeno per la birra, e parlammo di altre cose, finché, dopo un poco, io dissi: — Se i viaggi nel tempo fossero davvero possibili, saprei bene che cosa fare.
— Di cosa stai parlando?
— Del mio problema. Senti, Chuck. tutte le cose che mi preoccupano e che non riesco a spiegare sono successe trent’anni fa. Se potessi tornare indietro a scoprire la verità, se fosse possibile tornare indietro nel tempo…
— Ma è possibile! — disse Chuck fissandomi.
— Cosa?
Lui parve riprendersi. — Niente. Non avrei dovuto dirlo — rispose.
— È probabile — dissi — ma ormai l’hai detto, e adesso sarà meglio che mi spieghi tutto se non vuoi che ti vuoti questo boccale in testa.
— No, Dan, dimenticatene.
— Parla!
— Non posso, credimi. — Si guardò intorno per accertarsi che nessuno potesse sentire, e quando ne fu sicuro, aggiunse: — I viaggi nel tempo sono segreti di Stato.
— Buon Dio, perché?
— Ehi, non hai mai lavorato per il governo, tu? Metterebbero il cartellino «segreto» su tutto, se potessero. È il loro modo di ragionare, e io non posso farci niente. Quindi, come non detto.
— Piàntala, Chuck! È una cosa terribilmente importante per me… — E poiché lui non accennava a rispondere, aggiunsi: — Con me puoi parlare. Ai miei tempi, avevo un permesso «Q». Non me l’hanno mai ritirato, anzi. Solo che dopo l’ultima guerra non ho più lavorato per il governo.
— Cos’è un permesso «Q»?
Glielo spiegai, e lui annuì: — Sì, adesso si chiamano lasciapassare Alfa. Si vede che maneggiavi roba importante, Dan. Io ho solo un Beta.
— È allora perché non parli?