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Comunque, mi feci portare da un tassi direttamente al magazzino della ditta, dove acquistai dieci chilogrammi d’oro, isotopol97, sotto forma di bobine di filo. Lo pagai 86 dollari al chilo, cioè molto caro dal momento che l’oro per usi meccanici era sui 70 dollari al chilo, tuttavia l’oro per uso meccanico si vendeva in leghe introvabili in natura, o negli isotopi 196 e 198, mentre io, per lo scopo che avevo in mente, volevo oro fino.

Mi avvolsi i fili d’oro a spirale intorno al petto, e partii per Boulder. Dieci chili d’oro sono un bel peso, e mi facevano sembrare un botticella, ma io volevo essere sicuro di averlo sempre con me, e in lingotti sarebbe stato ancora più ingombrante.

Il professor Twitchell abitava ancora a Boulder, ma non insegnava più, e trascorreva quasi tutto il suo tempo al bar o al circolo della facoltà. Mi ci vollero quattro giorni per trovare il bar frequentato dal professore, perché non m’era stato possibile andare da lui al circolo precluso a un estraneo quale ero io. Quando finalmente lo scovai, mi accorsi che non era difficile fargli accettare un bicchierino.

Il professore era una figura tragica, nel senso classico della parola. Era un grand’uomo, un grandissimo uomo in declino. Il suo nome avrebbe potuto essere messo a fianco di quelli di Einstein o di Newton, e invece, così com’erano andate le cose, solo pochissimi specialisti del suo campo conoscevano l’enorme importanza del suo lavoro. Quando lo conobbi io, il suo brillante ingegno era già offuscato dalla delusione, dagli anni e dall’alcol. Ne riportai la stessa impressione che se avessi visitato le rovine abbandonate di un magnifico tempio.

La prima volta che l’incontrai, alzò gli occhi su di me e disse: — Di nuovo voi.

— Come?

— Non eravate uno dei miei studenti?

— No, signore, non ho mai avuto questo onore. — Di solito quando la gente insiste a dire che deve avermi già visto da qualche parte tronco netto, negando la possibilità del fatto, ma questa volta dissi invece: — Forse mi scambiate per mio cugino, che si è laureato nell’ottantasei e che seguì i vostri corsi, come non ha mai perso l’occasione di far sapere.

— Davvero?

Come non ci si inimica certo una madre dicendole che il suo bambino è bellissimo, così mi bastò questo velato complimento perché il professore mi invitasse a sedere e permettesse che gli offrissi una bibita. Nei quattro giorni da che lo cercavo avevo fatto il possibile per saper tutto sul suo conto, così conoscevo i libri che aveva scritto, le pubblicazioni che aveva presentato nei vari congressi, e dove e quando aveva tenuto le sue conferenze più importanti. Avevo anche cominciato a leggere uno dei suoi libri, ma a pagina nove ero stato costretto a rinunciare, anche se, forse, qualcosa capivo.

Gli lasciai intendere che mi occupavo, a tempo perso, di problemi scientifici, e che in quel periodo ero alla ricerca di materiale per un libro che avevo intenzione di scrivere e intitolato Geni nell’ombra.

— Che specie di libro dovrebbe essere?

Ammisi, con riluttanza, che avrei voluto cominciarlo col racconto della sua vita, posto naturalmente che lui non avesse niente in contrario e desistesse, per una volta, dalla sua avversione per la pubblicità. Il professore non si lasciò commuovere, nemmeno quando gli dissi che sarebbe stato suo dovere verso i posteri. Ma il giorno seguente cambiò idea e si disse disposto ad aiutarmi purché io dedicassi tutto un libro alla sua biografia.

Da quel momento in poi non fece che parlare, parlare e parlare, mentre io prendevo appunti, senza fingere, perché non volevo metterlo in sospetto, e inoltre spesso lui mi invitava a rileggere qualche brano.

Ma non alluse una sola volta ai viaggi nel tempo. Alla fine, presi il coraggio a due mani e dissi: — Professore, è vero che, se non fosse stato per un certo colonnello che una volta fu mandato qui, voi avreste vinto il Premio Nobel?

Lui imprecò per tre minuti in uno stile magnifico, poi mi chiese: — Chi ve ne ha parlato?

— Sapete, professore, mentre eseguivo ricerche presso il Dipartimento della Difesa… non ve ne avevo già parlato?

— No.

— Ecco, in quell’occasione un giovane fisico che prestava la sua opera al Dipartimento mi raccontò la faccenda. Aveva letto il rapporto del colonnello, e dichiarò che se vi avessero permesso di rendere pubblica la vostra scoperta, voi oggi sareste il più famoso fisico vivente.

— Assolutamente vero.

— Ma questo colonnello… non ricordo il nome, ordinò che doveva essere dichiarato segreto di Stato.

— Quel colonnello era un incompetente presuntuoso, incapace persino di trovare il cappello che portava sulla zucca.

— Fu davvero una cosa tremenda dunque che il mondo venisse privato della vostra scoperta, o per lo meno dell’annuncio di essa. So infatti che non potete nemmeno parlarne.

— Uhm!

Quella sera non riuscii a cavargli altro, e mi ci volle una settimana per indurlo a farmi entrare nel suo laboratorio.

Era situato in un edificio che ospitava anche altri laboratori dove altri studiosi eseguivano le loro ricerche, ma lui non aveva mai voluto cedere la sua tana, nemmeno quando s’era ritirato dalla professione attiva, rifiutandosi di dare la chiave a chicchessia e tantomeno di farlo smantellare.

Quando ci entrai, il laboratorio puzzava come una cantina chiusa da secoli.

Il professore aveva bevuto, ma non abbastanza da avere le idee confuse. Mi fece una conferenza sulla matematica della teoria temporale e dello spostamento temporale, non alluse mai alla sua scoperta come al viaggio nel tempo ma mi avvisò di non prendere appunti, cosa che del resto non sarebbe servita a niente, perché quando Twitchell cominciava con — È perciò ovvio… per continuare un quarto d’ora senza fermarsi, parlava di cose ovvie solo per lui e il Padreterno.

Quando ebbe finito l’esposizione strettamente scientifica della sua teoria, trovai il momento di intervenire con una domanda: — Quel fisico mio amico — dissi — mi ha raccontato che l’unico neo nella vostra scoperta era che mancava la possibilità di calibrarla con esattezza, vero? Cioè, che sarebbe impossibile determinare l’ampiezza dello spostamento temporale.

— Cosa? Fesserie! Giovanotto, se una cosa non si può misurare, non appartiene alla scienza. — Borbottò un poco fra sé, come un pentolino in ebollizione, poi continuò: — Qua, adesso vi mostrerò io — e mi voltò le spalle per occuparsi dei suoi macchinari. Di essi, tutto quello che era visibile era il cosiddetto luogo temporale, una bassa piattaforma sormontata da una gabbia e munita d’un quadrante che avrebbe potuto andar bene per la manovra d’una caldaia o di una camera a bassa pressione.

— Avete qualche spicciolo? — mi chiese tornando a voltarsi.

Ne cavai di tasca una manciata, e lui scelse due pezzi da cinque dollari, quei begli esagoni di plastica verde menta emessi da pochi mesi. Confesso che glieli vidi prendere con una stretta al cuore, perché ero alquanto a corto di denaro.

— Avete un temperino?

— Sì.

— Allora incideteci sopra le vostre iniziali.

Eseguii, poi lui mi fece mettere le due monete, una vicina all’altra, sulla piattaforma.

— Prendete nota del tempo esatto. Io ho manovrato i comandi in modo che lo spostamento duri una settimana, con una differenza di sei secondi in più o in meno.

Guardai l’orologio, mentre il professor Twitchell contava: — Meno cinque… quattro… tre… due… uno… Via! — Non voglio dire che spalancai gli occhi per lo stupore, perché Chuck mi aveva già raccontato. Ma sentir raccontare, e vedere, son due cose diverse.

Il professore disse allegramente: — Ecco fatto! Torneremo qui fra una settimana a partire da stasera, e aspetteremo di vederne tornare una. Quanto all’altra… perché ne avete messo due, vero?