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Discusse vivacemente per alcuni minuti, perché l’altro non era disposto ad acconsentire a una richiesta tanto insolita, ma alla fine fu accontentato, e tornò al pannello dei comandi. Dispose in modo diverso alcuni pulsanti, poi aspettò. Quando si accese una lampadina rossa, disse: — Ecco, ora abbiamo il voltaggio occorrente.

— Proprio come pensavo.

— E allora?

— E allora niente.

— Cosa volete dire?

— Quello che ho detto: che adesso non succederà proprio niente.

— Esatto, perché non ho girato l’interruttore principale. Se lo facessi voi sareste spostato di trentun anni e tre settimane all’indietro.

— Invece vi dico che se anche lo faceste non mi succederebbe niente.

Il professore s’incupì. — Fate apposta per offendermi — disse.

— Pensate pure quello che volete, professore. Io sono venuto qui per controllare la veridicità di una voce. Ho indagato, ho visto un laboratorio con strumenti strani e tante luci sopra, come si potrebbe vedere al cinema. Poi ho visto un grazioso gioco di prestigio… Quanto al resto, sì, ho sentito tante chiacchiere senza l’appoggio di un briciolo di prova. Voi dichiarate di aver scoperto una cosa che secondo me non si può effettuare. Hanno ragione quelli che vi credono matto…

Il poveretto era sull’orlo di un colpo apoplettico, ma io dovevo insistere perché soltanto così mi era possibile stimolare l’unico riflesso ancora efficiente in lui: la vanità.

— Venite fuori — balbettò con una voce strozzata. — Miserabile! Venite fuori che vi strangolo con le mie mani!

— Credete di farmi paura, nonno. Schiacciate il bottone, su, fatemi vedere come siete bravo… Provate… tanto non ci credo!

Lui guardava incerto da me al pulsante. — Un pallone gonfiato, ecco cosa siete — continuai io — un vecchio rottame pieno di bugie. Aveva ragione il colonnello del Dipartimento della Difesa. Non è vero che ha messo il sigillo del segreto sul vostro lavoro… ha messo il vostro incartamento nell’archivio degli inventori matti.

Questa volta non esitò più.

10

Mentre premeva il pulsante, avrei voluto gridargli di non farlo. Ma era troppo tardi: stavo già precipitando.

Il mio ultimo pensiero fu di terrore. Avevo tormentato a morte un povero vecchio che non mi aveva fatto niente di male… e non sapevo in che direzione sarei andato.

Peggio ancora, non sapevo se veramente sarei arrivato da qualche parte.

Poi il senso della caduta finì, con un tonfo. Ero realmente caduto, da un’altezza inferiore al metro credo, tuttavia, non essendoci preparato, ruzzolai come un sacco.

Poi, una voce disse: — Da dove diavolo venite?

Chi aveva parlato era un uomo sulla quarantina, quasi completamente calvo, ma robusto e ben costruito. Stava davanti a me, coi pugni sui fianchi e mi guardava con occhi intelligenti e penetranti che spiccavano nella faccia simpatica anche se momentaneamente accigliata.

Mi drizzai a sedere e vidi che mi trovavo su uno spiazzo cosparso di ghiaia e di aghi di pino. Accanto all’uomo c’era una donna, minore del compagno e molto graziosa, che mi guardava a bocca aperta.

— Dove sono? — chiesi stupidamente. Avrei fatto meglio a chiedere infatti: Quando sono? ma la domanda sarebbe sembrata ancora più pazzesca. Bastò un’occhiata per accertarmi che non potevo essere nel 1970, né nel 2001 perché in questi casi i succinti indumenti che quei due avevano addosso sarebbero stati limitati alla spiaggia. Dunque avevo sbagliato epoca.

Intanto l’uomo tornò a chiedermi: — Insomma, si può sapere da dove venite? — Alzò gli occhi e aggiunse: — Non vedo paracadute, fra i rami… e poi, cosa fate qui? Questa è una proprietà privata. E perché siete vestito in maschera?

Io non trovavo niente di strano nei miei vestiti, specie confrontandoli con i loro, ma tacqui. Altri tempi, altri costumi. La mia vita non sarebbe stata molto facile.

La donna posò una mano sul braccio del compagno e disse: — Calmati, John. Deve essersi fatto male.

L’uomo mi chiese se mi ero fatto male, e io, sebbene a fatica, riuscii a mettermi in piedi e dissi: — No, non mi pare. Solo qualche graffio, forse… Ma potreste dirmi che giorno è oggi?

— Eh? Sabato tre maggio.

— Scusatemi — mi affrettai ad aggiungere, vedendo il suo stupore. — Devo aver preso una botta in testa perché mi sento la mente confusa… Non mi ricordo più l’anno.

— Dovete aver preso una bella botta, amico. Siamo nel millenovecentosettanta.

Provai un sollievo indicibile.

— Grazie! Grazie infinite. — E poiché dalla sua espressione mi parve che avesse tutte le intenzioni di andare a chiamare un’ambulanza, aggiunsi in fretta: — Vado soggetto, qualche volta, ad amnesia.

— Capisco — rispose lentamente lui. — Credete comunque di essere in grado di rispondere ad alcune domande?

— Non lo tormentare, caro — gli disse la donna, forse sua moglie. — Ha l’aria di essere una persona per bene. Dev’essere capitato qui per sbaglio.

— Staremo a vedere. Dunque?

— Sì, adesso mi sento bene, ma prima avevo la testa molto confusa.

— Bene, ditemi allora come vi chiamate, in che modo siete arrivato qui, e perché andate in giro vestito a quel modo.

— Mi chiamo Danny, ma se devo esser sincero non so come sono arrivato qui, e sicuramente ignoro dove mi trovo. Gli attacchi d’amnesia mi colgono di sorpresa. Quanto al vestito… chiamatelo un’eccentricità personale. Ma anche voi, se è per quello, non scherzate.

— Oh, vi spiego subito. Io e mia moglie ci troviamo qui nella pineta del Circolo Elioterapico di Denver a fare la cura del sole, quindi non c’è da meravigliarsi se siamo così vestiti. Non è previsto l’improvviso ingresso di estranei.

John e Jenny appartenevano a quella categoria di persone cordiali e imperturbabili che non si scompongono davanti a niente. Certo la mia pietosa spiegazione non bastò a convincere John, che avrebbe voluto indagare a fondo, ma Jenny lo costrinse a non farlo. Io insistetti nella mia versione degli attacchi di amnesia e dissi che ricordavo solo di essere stato in una stanza del New Brown Palace di Denver, e poi nient’altro fino al momento in cui ero piombato davanti a loro. Visto che non riusciva a cavarmi altro, John disse: — Bene, molto interessante. Se riuscite a trovare qualcuno che vada a Boulder potete farvi portare fino là, per poi prendere l’autobus per Denver. Però — aggiunse, scrutandomi — se vi porto alla sede del Club, qualcuno si mostrerà sicuramente molto, ma molto curioso.

Tacqui, impacciato, finché non mi venne un’idea. — Sentite — dissi — se mi spogliassi anch’io, credete che susciterei meno curiosità?

— Credo di sì — disse lui.

— Caro — intervenne Jenny — potremmo presentarlo come nostro ospite.

— Uhm… Ma sì! Però bisognerà sapere qualche cosa di più sul suo conto. Ricordate almeno da dove venite?

— Sì, certamente — mi affrettai a rispondere. — Da Los Angeles di California — e mentalmente presi nota di essere cauto: non avrei certo migliorato la mia situazione se mi fossi lasciato sfuggire qualche descrizione della Los Angeles del 2001 invece che di quella del 1970.

— Basta così. Questo è il nostro amico Danny appena arrivato dalla California. Metterò il suo ridicolo vestito nella mia borsa da spiaggia, e così nessuno troverà niente da ridire.

Sistemate così le cose grazie al buonsenso di Jenny, ci avviammo verso la palazzina del Club. Io mi spogliai in una cabina, ed ebbi cura di nascondere il rotolo di filo d’oro sotto il fagotto degli abiti che infilai sotto il braccio. Mentre Jenny andava a rivestirsi nel reparto signore John mi prese da parte e disse: — Ora che siamo soli, non credete di avere qualche spiegazione da darmi?

— John — risposi dopo un momento di esitazione — l’ultima cosa al mondo che vorrei è darvi dei fastidi, credetemi…