— Dunque, dovrei attenermi alla versione amnesia?
Mi trovavo in una situazione insostenibile. John Sutton aveva il diritto di sapere, ma ero certo che non avrebbe creduto la verità, e se l’avesse creduta sarebbe stato ancora peggio, perché inevitabilmente si sarebbe fatta intorno alla mia persona un pubblicità che mi sarebbe riuscita molto dannosa.
— John, se ve lo dicessi non mi credereste — mi decisi finalmente a rispondere.
— Non lo metto in dubbio. Però resta il fatto stranissimo che, di punto in bianco, un uomo casca giù dal cielo proprio davanti a me, senza farsi male. Danny, ho letto parecchi libri di fantascienza ma la realtà è un’altra cosa. Eppure mi trovo davanti a una realtà inesplicabile.
— John, il vostro modo di esprimervi mi dà l’idea che siate avvocato o notaio.
— È vero.
— Ebbene, posso farvi una comunicazione sotto il suggello del segreto professionale?
— Uhm, vorreste diventare mio cliente?
— Sì, se accettate. È probabile che mi occorrano i vostri consigli.
— D’accordo, allora. Fuori il rospo.
— Bene. Vengo dal futuro. Viaggio nel tempo.
Lui rimase in silenzio per parecchi minuti.
— Avevate ragione — disse poi. — Non ci credo. Adesso, mi sembrano molto più plausibili gli attacchi di amnesia.
— Ve l’avevo detto che non mi avreste creduto!
— Diciamo che mi rifiuto di credervi — corresse lui con un sospiro. — Come mi rifiuto di credere nei fantasmi, nella reincarnazione, e in tutte queste diavolerie. Mi piacciono le cose semplici, che si possano capire. Così, come primo consiglio, vi suggerisco di non parlare a nessuno di questo particolare.
— È proprio quello che pensavo di fare.
— Inoltre, fareste bene a distruggere quei vestiti. Vi presterò io qualcosa. Ho qui al circolo una tuta. — Mentre parlava aveva preso in mano un lembo della mia giacca, e senza volerlo la sollevò di quel tanto che gli permise di vedere l’oro nascosto sotto.
— Ehi, che diavolo avete lì?
Ormai era troppo tardi e non mi restava che confidarmi con lui anche su quel particolare. — A voi cosa sembra? — chiesi.
— Oro.
— Infatti.
— Dove l’avete preso?
— L’ho comprato.
— Comperato… legalmente? — indagò lui.
— Vi giuro di sì. E ho intenzione di venderlo a mia volta alla Zecca di Denver, perché non ho denaro contante.
— Voglio credervi, Danny. Ma alla Zecca vi faranno delle domande. Eccovi dunque un altro consiglio: poiché ci sono ancora molti cercatori d’oro, nella zona, dite che si tratta del frutto di lunghi anni di ricerca, altrimenti rischiereste di passare momenti poco piacevoli.
I Sutton rimasero al Club fino al lunedì mattina, e io restai con loro. Avevano un villino nel parco, e gli amici che mi presentarono erano garbati e poco curiosi. John fece una scappata a casa per portarmi un paio di calzoncini e una maglietta, giacché non potevo far la cura del sole in tuta, e dormii su una brandina nello spogliatoio.
Il martedì, John mi accompagnò in città, dove affittai un appartamentino che arredai con tutti gli arnesi necessari al mio lavoro, e mi aiutò a convertire parte dell’oro in moneta sonante. Avevo il tempo misurato, e mi misi immediatamente al lavoro. Era una vera noia doversi servire della squadra a T, e del compasso, così per risparmiare tempo, prima di aggiornare il Servizievole Sergio, progettai Dino Disegnatore. Cambiai naturalmente nome a Sergio, che divenne il Proteiforme Pete, automa tutto fare, con la testa farcita di tubi Thorsen. Sapevo che con gli anni, il Proteiforme Pete si sarebbe ancora perfezionato e i suoi discendenti si sarebbero evoluti in un’orda di congegni specializzati, ma ora come ora dovevo farlo così.
Il lavoro procedeva svelto, perché conoscevo già progetti e disegni, ma non possedendo strumenti né un’officina attrezzata, la realizzazione pratica dei progetti andava forzatamente a rilento. Lavoravo sette giorni alla settimana, dalla mattina alla sera, senza un attimo di riposo, e mi concessi solo un occasionale week-end con John e Jenny al Club. Il primo settembre avevo pronti progetti, disegni e prototipi dei due congegni. Se il lavoro mi stancava aveva però il merito di impedirmi di uscire spesso, perché farmi vedere in giro poteva costituire un pericolo non indifferente, come accadde un giorno quando incontrai al bar il professor Twitchell, e dovetti faticare non poco per evitare di cadere in qualche pericoloso tranello, o quell’altra, quando, essendomi buscato un forte mal di denti, andai da un dentista. Avevo appena aperto la bocca per mostrargli il dente malato, che già mi pentivo della mia imprudenza. M’ero dimenticato di essermi fatto curare due denti… nel 2001!
Il medico era rimasto infatti a bocca aperta anche lui, al vederli, e appena ebbe ritrovato la voce, mormorò:
— Per la barba di Matusalemme! Chi vi ha curato quei denti?
— Co-e di-e?
Lui mi tolse la mano dalla bocca. — Come dite? — ripetei. — Chi mi ha fatto questo lavoretto? Ah, si tratta… di un lavoro sperimentale d’un medico… d’un medico indiano mio amico.
— Sapete che procedimento segue?
— No, non m’intendo di odontotecnica.
— Un momento… permettete che fotografi questo magnifico lavoro — e s’avviò verso gli apparecchi a raggi X.
— No, vi prego, dottore. Limitatevi a otturarmi questa maledetta carie.
Il dentista esitò, poi per fortuna rinunciò all’idea.
Per il resto, non ebbi fastidi, tanto più che nel 1970 io avevo abitato a Los Angeles e non a Denver e dintorni, quindi per il momento ero abbastanza tranquillo. Mentre sudavo sedici ore al giorno sui miei modelli, incaricai un’agenzia specializzata di indagare sul passato di Belle, e i risultati delle indagini furono tali per cui non mi pentii del denaro speso.
Belle non aveva perso tempo. Nata sei anni prima di quanto non tenesse a dichiarare, a diciotto risultava già sposata due volte. Uno dei due matrimoni però non era stato valido, in quanto il marito aveva già moglie. Quanto al secondo marito l’agenzia non era riuscita a scoprire se Belle aveva divorziato anche da quello. Comunque, in seguito aveva contratto altri quattro matrimoni, sebbene uno fosse dubbio. Con tutta probabilità giocava sul trucco della vedova di guerra chiamando come garante un uomo che non poteva rispondere perché morto. Aveva poi divorziato una volta, d’accordo col marito, e un altro marito era defunto. Non era improbabile che fosse tuttora sposata con gli altri. Anche la sua fedina penale era lunga, varia, interessante, ma era sempre riuscita a cavarsela con semplici multe, salvo una condanna a pochi mesi per truffa, nel Nebraska. Da quel momento c’erano delle lacune che l’agenzia non era riuscita a colmare, fino al giorno in cui era stata assunta da Miles e da me. La direzione dell’agenzia mi chiese se doveva fare ulteriori indagini, ma a me bastava così. Ne avevo saputo abbastanza, e inoltre avevo pensato che il mio giochetto poteva risultare pericoloso per me, rischiando di cambiare troppe cose qualora, a causa del mio intervento, si fosse rivolta su Belle l’attenzione di persone o di autorità con cui la donna aveva dei conti da saldare.
Nonostante che continuassi a lavorare come un dannato, ottobre mi piombò addosso senza che me ne accorgessi. Non avevo ancora fatto metà dei disegni da inviare insieme alla richiesta dei brevetti, né avevo pensato a organizzarmi per diffondere, e in un secondo tempo vendere, le mie invenzioni. Tutto questo per colpa della mancanza di tempo, tanto che cominciavo già a pentirmi di non aver chiesto al professor Twitchell di fare uno spostamento di trentadue anni invece che di trentuno. Avevo sottovalutato il tempo che mi sarebbe occorso, e sopravvalutato invece le mie capacità.
Non avevo mostrato le mie invenzioni ai Sutton non perché volessi tenerle nascoste ma perché preferivo evitare un mucchio di chiacchiere e di consigli inutili finché non fossero complete. L’ultima domenica di settembre i miei nuovi amici mi invitarono ad andare al Circolo Elioterapico con loro.