— No, lasciamola dormire finché verrà il momento della vostra partenza. Jenny è un animo semplice. Dan. Non le importa chi siete e da dove venite, basta che le siate simpatico. Se lo riterrò opportuno, le parlerò io in un secondo tempo.
— Come volete.
Mi lasciò parlare senza interrompermi altro che per versarmi da bere, solo birra di zenzero: avevo i miei buoni motivi per non toccare un goccio d’alcol, e quando ebbi finito, lui disse: — Vi saprò dire il mio parere quando avrò constatato con i miei occhi i mutamenti che mi avete descritto riguardo agli anni a venire. Per il momento continuo a considerarvi il più simpatico matto piovuto dal cielo che io abbia mai conosciuto.
— Siete libero di pensare come meglio vi pare.
— Sono costretto a giudicarvi così, altrimenti divento matto io… e per Jenny non sarebbe piacevole. — Guardò l’ora, e aggiunse: — Sarà meglio svegliarla. Mi mangerebbe vivo se vi lasciassi partire senza averla salutata.
— Non mi sarei mai sognato di fare una cosa simile.
Mi accompagnarono in macchina all’aeroporto internazionale di Denver, e Jenny mi abbracciò a lungo, commossa, congedandosi da me al cancello. Alle undici, partii con l’aereo diretto a Los Angeles.
11
La sera seguente, 3 dicembre 1970, mi feci depositare da un tassi a un isolato di distanza dalla casa di Miles, con un buon anticipo sull’orario della mia prima visita laggiù, orario che non ricordavo al minuto. Quando mi avvicinai alla casa era già buio, ma vidi solo la sua macchina, accanto al marciapiede, così arretrai d’un centinaio di metri fermandomi in un punto da dove potevo vedere tutto il tratto del marciapiede, e attesi.
Avevo avuto il tempo di fumare due sigarette, quando vidi un’altra macchina fermarsi davanti alla casa di Miles, e spegnere i fanali. Aspettai due minuti, poi mi affrettai ad avvicinarmi. Era la mia macchina.
Non avevo la chiave, ma non me ne preoccupai. Distratto com’ero, m’era capitato spesso di dimenticare le chiavi, così avevo preso da tempo l’abitudine di tenerne un paio di riserva nel baule. Le presi, e salii a bordo. In quel punto la strada era in pendenza, così senza bisogno di accendere il motore la misi in moto e scesi fino alla successiva curva, per andare poi a parcheggiarla nel viottolo retrostante la casa di Miles, e sul quale si affacciava anche il suo garage. La porta di quest’ultimo era chiusa a chiave, ma sbirciando dietro i vetri sporchi della finestra scorsi una massa oscura nella quale riconobbi una vecchia conoscenza: il prototipo del Servizievole Sergio.
Le porte del garage non sono fatte per resistere all’attacco d’un uomo munito di punteruolo, per lo meno nella California del 1970. Dopo pochi secondi ero dentro. Sapevo che smontando Sergio a pezzi avrei potuto farlo stare nella mia macchina, ma per prima cosa volli accertarmi che disegni e progetti fossero nella nicchia sopra lo chassis, come sospettavo. C’erano, e li portai in macchina, poi mi misi a smantellare Sergio, lavoro che richiese poco tempo, dato che nessuno meglio di me poteva sapere com’era fatto.
Avevo appena portato sulla mia macchina l’ultimo pezzo, cioè lo chassis costituito dalla sedia a rotelle, quando sentii Pete mandare il primo lamento. Imprecando fra i denti contro di me per aver impiegato troppo tempo a smontare Sergio, corsi attorno al garage in modo da poter vedere distintamente nel cortile della casa. Lo spettacolo avrebbe avuto inizio subito.
M’ero ripromesso di godere fino in fondo il trionfo del mio gatto, ma non vedevo niente. La porta posteriore era aperta e attraverso la porta schermata si riversavano fiotti di luce nel cortile. Sebbene però sentissi urli, schianti, miagolii strazianti e strilli di Belle, non riuscivo a vedere niente. Mi avvicinai allora con cautela alla porta schermata, sperando di poter dare un’occhiata alla carneficina, ma quell’accidente era chiusa dall’interno. Era l’unico particolare che non rispondesse al previsto. Così mi frugai febbrilmente in tasca e dopo essermi rotto un’unghia nell’aprire il temperino riuscii a infilare la lama nella fessura e a sollevare il gancio. Feci appena in tempo a balzare indietro che Pete uscì con l’impeto di un motociclista che salta una siepe.
Caddi a sedere su un rosaio e mi ci volle del bello e del buono per liberarmi dalle spine. Ero così occupato che non mi preoccupai se Miles e Belle potessero uscire. Era un particolare che ignoravo, date le mie condizioni dell’altra volta, ma non avevo tempo di pensarci.
Quando mi fui rimesso in piedi, mi acquattai fra i cespugli arretrando oltre l’angolo della casa, perché dalla porta aperta usciva troppa luce. Ormai non mi restava da aspettare altro che Pete si calmasse. Prima, mi sarei ben guardato dall’avvicinarlo e dal toccarlo. Me ne intendo di gatti, io.
Ma tutte le volte che mi passava davanti cercando un pertugio attraverso cui infilarsi in casa, e mandando il suo grido di guerra, lo chiamavo piano: — Pete, sono qui. Vieni, Pete. Mettiti calmo, micio.
Lui s’era accorto della mia presenza, perché si voltò un paio di volte a guardarmi, ma per il resto m’ignorò. Coi gatti bisogna fare una cosa alla volta. In quel momento, il mio aveva un’importante faccenda da sbrigare e non poteva perdere tempo a strusciarsi contro le gambe del suo padrone. Ero sicuro che sarebbe venuto da me non appena avesse sistemato i suoi affari.
Mentre aspettavo, sempre accoccolato dietro un cespuglio, sentii l’acqua scrosciare nel bagno di Miles, e immaginai che lui e Belle stessero lavandosi e medicando le graffiature. Allora mi venne un’orribile idea. Che cosa sarebbe successo se fossi entrato e avessi sgozzato il mio corpo impotente? Ma scacciai subito l’idea perché non mi sentivo tanto curioso, e poi il suicidio è un esperimento un po’ troppo decisivo, sia pure in circostanze tanto singolari.
Comunque, per quanto in seguito ci abbia pensato, non sono mai riuscito a trovare una risposta a quella mia domanda.
Oltretutto, in quel momento ero convinto che sarebbe stato troppo pericoloso entrare, perché mi sarei potuto imbattere in Miles, e non volevo aggiungere un cadavere al carico della mia macchina.
Finalmente Pete si decise a fermarsi davanti a me, tenendosi però a una certa distanza. — Mrrrrgnau? — chiese, il che, tradotto, voleva dire: Entriamo a fare piazza pulita di quelle canaglie? Tu li colpisci in alto, io in basso.
— No, caro, lo spettacolo è finito.
— Acc… mrgnau!
— E ora di tornare a casa, Pete. Vieni qui.
Lui si mise a sedere, accingendosi a lavarsi. Dopo un po’, quando sollevò il muso a guardarmi, io fui pronto a tendergli le braccia, e lui fu altrettanto lesto a saltarmi al collo. — Brrr… Brrr — faceva, e voleva dire: Ma dove diavolo ti eri cacciato quando è cominciato il bello?.
Io lo portai in macchina e lo depositai al posto di guida, perché il resto era tutto occupato dai pezzi di Sergio.
Pete annusò i pezzi che avevo sistemato sul posto a fianco, di solito destinato a lui, e si guardò intorno con aria seccata. — Piantala di fare il difficile — gli ordinai. — Per questa volta mi starai in braccio mentre guido.
Aspettai di essere sulla strada prima di accendere i fanali, poi partii a gran velocità per il Lago del Grande Orso e il Campo delle Giovani Esploratrici. Strada facendo seminai nei fossati e nei campo i pezzi di Sergio, e mi fermai per stracciare e gettare in una roggia disegni e progetti. Il pezzo più grosso, cioè lo chassis, lo gettai in un burrone quando fui giunto in montagna. Erano le tre di notte quando entrai nel parcheggio di un motel a un tiro di fucile dal Campo delle Giovani Esploratrici. Quando il custode venne a farsi pagare l’affitto di una stanza per la notte, gli chiesi a che ora arrivava lassù la posta di Los Angeles.
— Gli elicotteri arrivano alle sette e tredici esatte qui sullo spiazzo.
— Bene, allora chiamatemi alle sette, per favore.