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Così, verso le quattro del pomeriggio, con Pete sdraiato sullo stomaco, scivolai felicemente per la seconda volta nel Lungo Sonno.

12

Stavolta i miei sogni furono più piacevoli. L’unico brutto che ricordi era uno in cui, freddo e tremante, cercavo, lungo un interminabile corridoio su cui si aprivano molte porte, quella che dava sull’estate, perché dall’altra parte di quella porta mi aspettava Ricky.

I miei movimenti erano impacciati da Pete che mi precedeva seguendomi, secondo la poco lodevole abitudine che hanno i gatti di intrufolarsi fra i piedi delle persone che camminano, col rischio di essere pestati o presi a calci.

Proprio davanti a ogni porta mi si cacciava tra i piedi, sporgeva il muso, e sentendo che dall’altra parte era inverno, si ritraeva spingendomi, quasi, indietro.Con tutto ciò, né io né lui rinunciavamo ai tentativi.

Anche il risveglio fu più agevole, questa volta, e non ebbi bisogno di ambientarmi. Anzi, il medico rimase sorpreso constatando con quanta naturalezza chiedevo la colazione e una copia del Times, senza mostrare meraviglia davanti alle prodezze di Pronto-agli-Ordini.

Mi consegnarono un biglietto, datato una settimana prima, a firma di John Sutton. Diceva:

Caro Dan, confesso che mi sono dato per vinto. Dunque: come avete fatto? Spero che vorrete venire presto a salutare me e Jenny, alla quale ho tuttavia spiegato che per qualche tempo avrete molto da fare. Stiamo tutti e due bene e siamo in forma, anche se qualche volta ho il fiato un po’ grosso, Jenny, invece, è più carina che mai.

Hasta la vista, amigo John.

P.S. Se la direzione del Ricovero lo permette, telefonateci… gli affari vanno a gonfie vele. Spero che sarete contento di noi.

Presi in considerazione l’idea di chiamare John, sia perché avevo voglia di salutarlo, sia perché desideravo esporgli un’idea colossale che mi era maturata nel cervello mentre dormivo… un congegno grazie al quale prendere un bagno sarebbe diventato una delizia degna di un sibarita. Ma rinunciai, per il momento, perché avevo altro per la testa. Mi limitai a prendere qualche appunto per ricordare meglio in seguito, e mi accinsi a schiacciare un pisolino con Pete in braccio, secondo un’abitudine piacevole ma a volte fastidiosa, perché a lungo andare vengono i crampi.

Lunedì 30 aprile uscii dal Ricovero per andare a Riverside dove affittai una stanza alla Locanda della Missione, vicino al Ricovero di quel quartiere.

La mattina seguente mi presentai al direttore del Ricovero, gli dissi chi ero, e gli chiesi se fra i suoi clienti ce n’era una che si chiamava Federica Virginia Heinicke.

— Avete documenti d’identificazione? — mi chiese.

Gli mostrai la patente di guida del 1970, rilasciata a Denver, e il certificato d’uscita dal Ricovero. Lui li esaminò attentamente, mentre io continuavo, con ansia: — Credo che debba uscire dal Sonno domani. Sapete se nel suo contratto vi sia una clausola per cui io posso essere presente al risveglio? No, non alludo ai preliminari, ma all’attimo in cui riprenderà definitivamente coscienza.

Lui mi sbirciò ancora, poi dichiarò, con esasperante lentezza: — La nostra cliente non vuol essere svegliata a un data precisa.

— No? — dissi con apprensione, senza capire il perché di questo particolare.

— No. Nel suo contratto c’è una clausola secondo la quale dobbiamo richiamarla alla vita solo quando sarete venuto voi! — e sorrise.

— Grazie, dottore! — esclamai con indicibile sollievo.

— Aspettate nella sala qui fuori — aggiunse il direttore — e fra due ore potrete tornare.

Non essendo capace di stare fermo, portai Pete a fare due passi.

La sera prima gli avevo comprato una borsa nuova, nella quale avevo fatto inserire un finestrino laterale di plastica trasparente, ma lui non pareva apprezzare le mie premure. Evidentemente aveva nostalgia di quella vecchia, rimasta in casa di Miles… trent’anni prima.

Per ammazzare il tempo, mi fermai a fare colazione in un simpatico ristorante, ma non riuscii a mandare giù niente. Pete mangiò anche la mia porzione di uova, ma scartò la pancetta fritta agitando la zampa con disgusto.

Alle undici e mezzo ero già al Ricovero, e dopo un’altra mezz’ora di estenuante attesa finalmente me la lasciarono vedere. Tutto quello che riuscii a scorgere di lei fu l’ovale del viso. Il resto era avviluppato nelle lenzuola, ma subito riconobbi la mia Ricky, cresciuta, e somigliante a un angelo addormentato.

— Fra poco si sveglierà — mi spiegò il dottor Ramsey, il direttore — si trova immersa nel sonno ipnotico… Uhm, forse sarebbe meglio mettere fuori il gatto.

— Mi spiace, dottore, ma il gatto resta.

Lui fece per ribattere, ma poi si strinse nelle spalle, e rivoltosi a Ricky disse con voce alta e ferma: — Svegliati, Federica. Svegliati. Devi svegliarti subito.

Le palpebre di Ricky ebbero un fremito lieve, poi gli occhi si aprirono, si volsero in giro, e quando si fermarono su di me, la sua faccia si illuminò in un sorriso. — Danny… e Pete! — Sollevò le braccia, e io potei vedere che aveva infilato al pollice il mio vecchio anello.

Pete si mise a fare le fusa e balzò sul letto, dandole grandi testate, avanti e indietro, sotto il mento, in un’estasi di benvenuto.

Il dottor Ramsey avrebbe voluto che passasse un’altra notte al Ricovero, ma Ricky non volle. La nonna di Ricky era morta nel 1980, e lei non aveva altri parenti, ma aveva ancora qualche oggetto di sua proprietà, soprattutto libri, che io feci spedire alla sede dell’Aladino, al nome di John Sutton. Ricky era un po’ confusa e stordita notando i cambiamenti avvenuti nei vent’anni e più in cui aveva dormito, e non si staccava mai dal mio braccio. Ma non provò mai quel senso di solitudine caratteristico di chi si sveglia dal Lungo Sonno e non ha nessuno ad aspettarlo.

Dopo Brawley ci recammo a Yuma, dove io firmai il registro matrimoniale del municipio scrivendo per esteso, in bella calligrafia, il mio nome: Daniel Boone Davis, perché non ci fossero dubbi su quale D. B. avesse apposto quell’importante firma. Pochi istanti dopo, con la mano di Ricky nella mia, ripetevo le parole del celebrante: — Io, Daniel, prendo te Federica in legittima sposa… fino a che morte non ci divida.

Pete fu il mio compare d’anello. I testimoni furono due impiegati del municipio.

Partimmo subito da Yuma per un ranch-albergo, dove affittammo un villino appartato in cui un Pronto-agli-Ordini sbrigava le faccende, in modo che nessuno potesse turbare la nostra intimità. Pete sostenne una memorabile battaglia col gatto del proprietario, che fino a quel giorno non aveva avuto rivali nel ranch. Questo è l’unico avvenimento importante che ricordo, di cui non fossimo protagonisti Ricky e io.

D’altro, c’è poco da dire. Con le azioni della Domestica Perfetta di cui Ricky era proprietaria potei far varare la mia proposta di mettere Chuck al posto di direttore tecnico e confinare Mac Bee al rango di Ricercatore Emerito.

John è direttore generale della Aladino, che in effetti dirige insieme a Jenny. Io mi limito alla parte di azionista, così le due società sono spronate a farsi concorrenza… questo è vantaggioso per tutti.

Io mi accontento di una stanzetta piena di progetti e di disegni, e quando i progetti sono completi, chiedo i brevetti. Ho ritrovato gli appunti presi durante i colloqui col professor Twitchell, al quale ho scritto che il suo esperimento è pienamente riuscito, e che sono tornato via sonno freddo scusandomi sentitamente per aver espresso dei dubbi sulle sue capacità.

Gli ho anche chiesto se aveva piacere che pubblicassi il libro della sua biografia, ma non mi ha risposto. Evidentemente è ancora in collera con me.